Passaggio in Eritrea ed Etiopia

A cura di: Antonio Politano


Un viaggio nel cuore del Corno d’Africa, tra Etiopia ed Eritrea. Nell’Etiopia del Nord rurale e religioso, nella depressione dancala e lungo la “rotta storica”, per città sante e parchi, fino al lago Tana e alla capitale-metropoli. In Eritrea, dall’altopiano alle basse terre, dalla capitale al Mar Rosso, lungo strade e piste, coste e pianure semidesertiche, fino a città-mercato e isole remote.

Una mostra fotografica e multimediale collettiva, una narrazione visuale, fatta ad Addis Abeba, Asmara, Roma. Un progetto dell’associazione Cultura del Viaggio, con il sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, in collaborazione con Nital, Edt Lonely Planet Italia, Ethiopian Airlines, AfroNine Tour.

Uno sguardo plurale. È quello che esprime questa raccolta di immagini, accompagnata da qualche testo. Un passaggio, perché ogni viaggio lo è. Un attraversamento. Parziale e necessariamente veloce, più in orizzontale che in verticale. La fotografia, a volte, permette di fermare. Cattura l’istante, può restituire lo stato delle cose, diventare memoria. Un certo stato delle cose, naturalmente. Quel che appare, letteralmente, davanti a chi poi decide di premere il pulsante di scatto. Seguendo, consciamente o meno, quel noto allineamento caro a Henri Cartier-Bresson: «fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento […] è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore».

Lo stato delle cose, in un momento di cambiamento potenzialmente storico, purtroppo smentito tempo dopo dall’insorgere di un altro grave conflitto all’interno del gigantesco mosaico etiope. Un racconto per immagini (e qualche parola), fatto per lo più da non professionisti: i partecipanti al viaggio-workshop di fotografia (e scrittura) effettuato tra aprile e maggio del 2019, ad alcuni mesi dalla firma del trattato di pace tra Eritrea ed Etiopia, prima della tragica evoluzione dello scorso inverno che ha portato alle operazioni militari del governo centrale nel Tigray.

Un viaggio-workshop: viaggiare e approfondire la conoscenza e la pratica di linguaggi narrativi come la fotografia e la scrittura. Nel corso del viaggio: formazione continua in movimento (lezioni introduttive, uscite sul campo, valutazione di scatti e storie raccolte); sessioni, ad Addis Abeba e Asmara, dedicate a fotografi e studenti di diverse nazionalità; due fotografi - uno etiope, l’altro eritreo - inseriti, a turno, nel gruppo di allievi (alcuni aspiranti fotografi e giornalisti, altri fotoamatori assoluti) provenienti dall’Italia. Dopo il viaggio: mostre-proiezioni ad Addis Abeba e Asmara (in collaborazione con le Ambasciate Italiane nei due Paesi, l’Istituto Italiano di Cultura di Addis Abeba, l’Istituto Italiano Statale Omnicomprensivo di Asmara); incontri di “narrazioni visuali” (al Macro Museo di Arte Contemporanea di Roma e all’UlisseFest Lonely Planet di Rimini). Il racconto è diviso in quattro parti, due etiopi e due eritree: con testi, gallerie fotografiche, montaggi multimedia fatti soprattutto di foto con microtesti e frammenti video. Buon viaggio.

Debre Damo, dall'altura dove sorge uno dei monasteri più antichi di Etiopia si scorgono le montagne che segnano il confine con l’Eritrea.
© Antonio Politano
Ebaro, sul sagrato della chiesa cattolica si celebra il matrimonio tra due giovani di importanti famiglie Cunama.
© Giulia Boero

Parte 1: Dancalia e Gheralta

Il viaggio inizia da una diversità assoluta. Lo stereotipo vuole che sia come stare su una Luna, senza lasciare la Terra. Un temporaneo assaggio di inferno. I luoghi comuni non sembrano lontani dalla realtà, in Dancalia. Da qui il Mar Rosso si è ritirato nel succedersi delle ere geologiche, lasciando una depressione di sale e lava che scende oltre cento metri sotto il livello del mare, una linea di vulcani attivi, temperature da picchi planetari.

In questo universo arido vivono gli afar: di sale, allevamento, turismo. Pastori seminomadi, si spostano con le loro capanne tondeggianti seguendo le piogge rare. Non lontano dal confine, un tempo conteso, tra due paesi che non sono più in guerra, grazie al trattato di pace firmato nel luglio del 2018.

La bellezza desolata è business, soprattutto nella Dancalia etiope: chi viene da lontano vuole attraversarla, assolda guide, affitta fuoristrada e cammelli. Le guardie di scorta ai gruppi di turisti fanno impressione; ci si chiede se possano fare qualcosa contro banditi e razzie parte della leggenda di questi luoghi. Il kalashnikov è un compagno spesso in mano, conferisce identità, aderisce all’immagine del popolo fiero e bellicoso.

Le carovane di dromedari che trasportano blocchi di sale, verso i mercati a occidente, sull’altopiano, sono sopravvissute al motore e all’asfalto. Ma sono meno numerose. Risalgono le piste, lungo fiumi e canyon, fino all’infinito pavimento grigio-bianco della Piana del Sale; qui seguono le nuove strade, percorse dai camion delle compagnie minerarie. Il mestiere dei cavatori di sale non è cambiato molto: estraggono lastre e mattonelle, sotto un sole feroce, a colpi di mazze e picconi, vanghe e leve di ferro. L’efficientamento industriale arriverà e presto o tardi tutto ciò diverrà soprattutto una rappresentazione per turisti. Oggi attratti, principalmente, dalle pozze multicolori e i mosaici surreali di Dallol, la “collina degli spiriti” ai confini della piana cristallizzata.

Dancalia, una guardia armata vigila sui turisti tra le pozze multicolori delle formazioni saline e sulfuree di Dallol, la “collina degli spiriti”.
© Antonio Politano
Dancalia, nella Piana del Sale accanto a Dallol si estraggono e modellano blocchi di sale destinati ai mercati sull’altopiano.
© Giammarco Di Costanzo
Dancalia, una carovana di dromedari prosegue in direzione della Piana del Sale nei pressi di Assobole, lungo il greto del fiume.
© Isabella Bradascio

Più a ovest anche il Gheralta, massiccio di arenaria rossa che si innalza dall’altopiano del Tigray, descrive vite al limite. In mondi a parte. Scelte di vita di monaci, novizi, perpetue. In eremi, chiese rupestri, monasteri costruiti in alto, sopra guglie e torrioni e dentro la roccia, per essere più vicini a Dio. Alcuni sono talmente anziani da non poter più scendere per le difficoltà del sentiero, percorso giornalmente da fedeli e pellegrini.

Cambio di scenario, altre ascese, altri luoghi sacri, questa volta solo per uomini: Debre Damo è un monastero fortificato, tra i più antichi d’Etiopia, cui si accede scalando una parete verticale di una quindicina di metri con l’aiuto di un paio di corde di pelli e monaci volenterosi che tirano su i visitatori non pratici. Una piccola città ortodossa, che in passato è arrivata ad avere seimila abitanti e che ora, per la crisi delle vocazioni, ne conta meno di trecento. Dall’alto, verso nord, si intravedono le montagne che segnano il confine con l’Eritrea, vicinissimo. Prima o poi riaprirà.

Debre Damo, interno di una chiesa in restauro nel complesso del monastero. © Jean-Louis Zanet

Parte 2: Lungo la Rotta Storica fino ad Addis Abeba

Axum è la porta d’ingresso da nord della cosiddetta Rotta Storica, quella che seguono i turisti sulle tracce della spiritualità ortodossa e della storia di regni e impegni leggendari, toccando i luoghi delle grandi civiltà etiopi diventati nel tempo siti patrimonio Unesco.

Un passaggio obbligato. Anche perché la leggenda narra che qui, nel complesso della cattedrale di Santa Maria di Sion, sia custodita l’Arca dell’Alleanza con le Tavole della Legge trafugate dal Tempio di Salomone a Gerusalemme. Vane illusioni da Indiana Jones alla ricerca dell’arca perduta, solo i monaci guardiani hanno accesso all’edificio verde che la custodisce.

Dentro e attorno al complesso, donne e uomini traducono il proprio credo in movimenti ripetuti vorticosamente senza fine, in preghiere che creano un tappeto sonoro. Spazi riservati agli uomini, acqua santa raccolta in bottiglie di plastica, lunghi tavoli su cui si contano le offerte per la Pasqua.

Lalibela, l’arrivo dei primi fedeli, all’alba, attorno a San Giorgio, chiesa monolitica ipogea a forma di croce scavata nella roccia.
© Antonio Politano
Lalibela, alcuni fedeli pregano nella chiesa di Bet Medhane Alem aspettando la notte di celebrazioni della Pasqua copta.
© Rita Gasbarra

Poco distante, altri segni di grandezza, simboli di gloria, ma anche di dispute. Nel Parco delle Stele ne campeggia una di oltre 30 metri, distesa al suolo, spezzata in quattro parti; dicono che sia il blocco di pietra più grande che l’uomo abbia mai tentato di erigere. Accanto, la Stele trafugata da Mussolini nel 1937 per festeggiare il quindicesimo anniversario della marcia su Roma e restituita nel 2008 dopo rivendicazioni, polemiche e accordi.

Verso sud, si attraversa il Parco nazionale dei Monti del Simien, feudo dei babbuini Gelada, che si avvistano a centinaia. Gondar è all’incrocio di tre vie carovaniere: influenze axumite e arabe, antica capitale dell’Abissinia, castelli da Camelot d’Africa, quasi un medioevo su un altopiano africano. Colpisce la scuola mobile che porta l’istruzione ai bambini di strada, con carretti attrezzati, lavagne, abachi e gessetti colorati.

Lalibela, davanti alla chiesa di Bet Maryam i fedeli si riuniscono in preghiera tutta la notte per celebrare la Pasqua copta. © Giulia Compierchio

Tempo di Fasika, la Pasqua copta, a Lalibela. Meta di pellegrinaggi da tutto il Paese, espressione di un cristianesimo in forma austera. Una Gerusalemme d’Africa, come recitano i dépliant turistici, con le sue undici chiese ipogee, i più grandi monumenti monolitici del continente. Un labirinto di cripte, grotte, tunnel; pellegrini e turisti, sacerdoti che guidano la preghiera intonando canti, famiglie riunite per seguire le celebrazioni della notte e poi mangiare il cibo preparato per la festa.

La dimensione spirituale si incontra anche sulle rive del lago più grande d’Etiopia, il Tana, da cui nasce il Nilo Azzurro. Nelle sue isole, sparse tra la costa e l’interno, sorgono una ventina di monasteri circolari - destinazione di pellegrinaggi e scrigni di arte sacra - attorniati da mercatini di souvenir religiosi ad uso di un turismo quasi di massa.

Infine, la grande metropoli. Addis Abeba, capitale da 4 milioni di abitanti e decine di etnie, il più grande centro urbano dell’Africa orientale. Tradizioni e modernizzazione, tuk-tuk ed Ethio-Jazz, viali e superstrade, baracche e grattacieli, palazzi d’epoca e in costruzione, traffico e mercati. Uno slogan recita “siamo tutti etiopi”, Addis Abeba è anche la sede dell’Unione Africana. Volontà di unità e riforme, azioni simbolo, sancite anche dal premio Nobel per la pace.

Addis Abeba, interno casa, dopo la morte della moglie un padre si prende cura da solo della figlia seguendola anche nei compiti.
© Imran Mazhar
Addis Abeba, traffico lungo uno degli assi principali della capitale, Churchill Avenue.
© Jürg Schmidlin

Parte 3: Asmara

Il passaggio dall’Etiopia all’Eritrea avviene in aereo. Dopo una parziale riapertura, seguita alla firma del trattato di pace, le frontiere via terra tra i due Paesi sono chiuse. Il volo quotidiano tra le due capitali, ristabilito dopo lunghi anni di sospensione, è rimasto uno dei segni tangibili della pace che persiste. Per il viaggiatore, già all’aeroporto di Asmara si avverte il cambio di dimensione, dal grande al piccolo, da una sensazione di dinamicità a una di staticità e di salto indietro nel tempo e in un altro spazio.

Andando in giro, per chi viene dall’Italia, si respira quasi un’aria di casa e di tempi passati. Asmara appare in gran parte intatta, integra: le lunghe guerre e guerriglie, e gli scarsi mezzi a disposizione post-indipendenza, hanno fatto argine all’omologazione. E se, da una parte, hanno tenuto il Paese fuori da dinamiche di progresso tipiche di altri Paesi africani, dall’altra, lo hanno paradossalmente preservato dagli aspetti più negativi della modernizzazione.

Asmara è una “Piccola Roma” su un altopiano africano a 2300 metri di altitudine, un tempo cuore delle colonie italiane d’Africa orientale, da qualche anno patrimonio mondiale dell’Unesco per la straordinaria concentrazione di architetture art déco, futuriste, razionaliste. Con molte memorie della presenza italiana: dall’Albergo Italia al Cinema Roma, dai bar con macchine espresso d’epoca alla scuola italiana più grande fuori dai confini nazionali, latterie e ferramenta, il rito del caffè macchiato e della passeggiata lungo il viale principale.

Asmara, veduta del centro della città dal quartiere di Aba Shawl.
© Gianmarco Di Costanzo
Asmara, la tradizione vuole che durante le danze si appoggi una banconota sulla fronte di chi balla come segno di buon auspicio.
© Isabella Bradascio
Asmara, il corpo centrale della stazione di servizio Tagliero visto da una delle sue “ali”.
© Bereket Minassie

Ma Asmara, naturalmente, è anche una città contemporanea, fatta di centro e periferie, storia e fermento, speranze e contraddizioni. Un centro squadrato e lindo, figlio del piano urbanistico dei tempi coloniali, circondato da quartieri più irregolari che progressivamente calano i visitatori in una dimensione più africana come da immaginario. Strade asfaltate non trafficate, camion e auto, qualche corriera e tante bici, zona dei villini e quartieri popolari, vecchie stazioni di servizio diventate occasione di sperimentazioni architettoniche futuriste, caravanserraglio regno del berberè (la miscela di spezie tipica del Corno d’Africa) e del riciclo (dove ogni materiale prende nuova vita), chiese copte e cattoliche, moschee e una sinagoga, mercati aperti, paste e injera, cimiteri dei patrioti e dei carrarmati, battesimi e matrimoni. L’aria dell’altopiano è fresca; a volte sale dalle valli, che degradano verso la costa, un’aria più calda che viene dal Mar Rosso o dalle basse terre. Annuncio di un’altra Eritrea.

Asmara, al mercato centrale una donna compra della farina che userà per preparare il cibo tradizionale. © Giulia Boero

Parte 4: Tra isole remote e basse terre

La strada tra Asmara e Massaua è quella pericolosa, ma bellissima, di cui si parla in ogni libro o forum. Scolpita nei fianchi delle montagne, scende a picco dall’altopiano al Mar Rosso. Un dislivello di oltre duemila metri. Non sembra più così difficoltosa. Dicono che ora l’abbiano sistemata, allargando curve e i tratti più stretti. La discesa è un concentrato di scorci e vedute scenografiche in poco più di cento chilometri. Sulla strada, scimmie e dromedari, villaggi e terrazzamenti, monumenti che ricordano battaglie (come quella di Dogali). Arrivati sulla costa, il caldo si fa soffocante, rispetto alle temperature gradevoli della capitale.

Imprese e leggende. La strada fu costruita dagli italiani, con tecniche di avanguardia per l’epoca e grande dispiego di manodopera, come la ferrovia - oggi in disuso - che ancora le corre spesso accanto. E come una ardita teleferica, che trasportava le merci dalla capitale alla costa e che oggi non c’è più, portata via e venduta nel periodo in cui gli inglesi presero il posto degli italiani. In Eritrea si sente dire che quello che vedi lo hanno fatto gli italiani, quello che non vedi lo hanno portato via gli inglesi.

Massaua rimane un luogo strategico nel Mar Rosso; il suo antico centro porta ancora i segni della lotta per l’indipendenza.
© Gloria Sommavilla
Massaua, per il caldo torrido le famiglie dormono spesso all’esterno sugli angareb, letti tradizionali.
© Marcella Simonelli

Massaua è il grande porto sul Mar Rosso. La città vecchia, collegata alla terraferma da un lungo viale-ponte, colpisce per il suo splendore che contrasta con uno stato di sostanziale abbandono. Molti edifici mostrano ancora le ferite della lunga guerra con l’Etiopia, altri sono in rovina. Durante il giorno la città è sostanzialmente deserta per il caldo torrido. Di sera, notte e al mattino le strade si animano, sembra un’Africa che incontra l’Arabia. Inaccessibile al viaggiatore, il grande porto con le sue infrastrutture, gru e magazzini appare come addormentato. Su lance a motore si raggiunge l’arcipelago delle Dahlak, centinaia di isole di cui quelle abitate si contano sul palmo di una mano. Barriera corallina, snorkeling tropicale e pesca subacquea, lingue di sabbia chiara in un mare quasi intoccato, meta per vacanze di bellezza spartana.

Imprese e leggende. La strada fu costruita dagli italiani, con tecniche di avanguardia per l’epoca e grande dispiego di manodopera, come la ferrovia - oggi in disuso - che ancora le corre spesso accanto. E come una ardita teleferica, che trasportava le merci dalla capitale alla costa e che oggi non c’è più, portata via e venduta nel periodo in cui gli inglesi presero il posto degli italiani. In Eritrea si sente dire che quello che vedi lo hanno fatto gli italiani, quello che non vedi lo hanno portato via gli inglesi.

La linea ferrata tra Asmara e Massaua - completata dagli italiani nel 1932 - non è più attiva, ma rappresenta ancora una via che collega i villaggi lungo il percorso.
© Rodas Mengesha
Ebaro, donne di etnia Cunama ballano accompagnando il corteo di un matrimonio.
© Isabella Bradascio
Da Durfo si gode del panorama delle vallate che si aprono verso sud.
© Mauro Del Re

Massaua è il grande porto sul Mar Rosso. La città vecchia, collegata alla terraferma da un lungo viale-ponte, colpisce per il suo splendore che contrasta con uno stato di sostanziale abbandono. Molti edifici mostrano ancora le ferite della lunga guerra con l’Etiopia, altri sono in rovina. Durante il giorno la città è sostanzialmente deserta per il caldo torrido. Di sera, notte e al mattino le strade si animano, sembra un’Africa che incontra l’Arabia. Inaccessibile al viaggiatore, il grande porto con le sue infrastrutture, gru e magazzini appare come addormentato. Su lance a motore si raggiunge l’arcipelago delle Dahlak, centinaia di isole di cui quelle abitate si contano sul palmo di una mano. Barriera corallina, snorkeling tropicale e pesca subacquea, lingue di sabbia chiara in un mare quasi intoccato, meta per vacanze di bellezza spartana.

Risalendo sull’altopiano, a nord-ovest di Asmara, Keren è famosa per il mercato del lunedì lungo il greto del fiume. Di dromedari, attrazione principale, ce ne sono ormai pochi; come mezzo è in disuso e, dicono i mercanti, la chiusura del confine con il Sudan ha bloccato la gran parte dei commerci. Trattative avvincenti, “prove su strada” di asini e mucche, compravendite che si chiudono con strette di mano e rapidi passaggi di banconote. Attorno, mercati coperti, vie di sarti e argentieri, cimiteri italiani e inglesi, storie di militari e credenze religiose, forti egiziani e Madonne del baobab.

Dall’altopiano, dal rosso della terra e il verde degli eucalipti, si discende verso le basse terre, a ovest. I colori si fanno più tenui, tra l’avana e l’ocra. Il paesaggio si fa semidesertico. La luce è più forte, abbagliante. Lungo la strada pastori e pozzi, carrarmati e proiettili abbandonati. Dopo decenni di chiusura, Barentu (capoluogo della regione dei Cunama, considerata l’etnia più antica d’Eritrea) è di nuovo accessibile ai visitatori. Occorre un permesso, da mostrare ai check-point. La gente non è abituata a vedere turisti e viaggiatori. Non lontano da Barentu, in un villaggio fatto di capanne a cerchio, capita di assistere al matrimonio combinato di due giovani di famiglie importanti. Cortei danzanti, donne con tamburi e uomini con lance, canti e urla rituali, cibo in abbondanza, ospiti dai villaggi vicini. Un’esperienza di alterità, per chi viene da fuori e chi osserva gli estranei-intrusi.

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