Namibia, tra oceano e dune

A cura di: Enrico Barbini

“Ciò che non hai mai visto, lo trovi dove non sei mai stato”. Recita così un antico proverbio africano. E la Namibia di cose mai viste e da vedere ne offre tantissime.

La Namibia prende il nome dal deserto del Namib – termine che nella lingua del popolo Nama significa “luogo vasto” – e incanta con paesaggi surreali, come quelli della DeadVlei, e con le dune dalle cangianti tonalità di rosso uniche al mondo, fra le più alte del pianeta. E ancora con le meraviglie della fauna selvaggia dell’Etosha National Park, un immenso e naturale zoo a cielo aperto, e con la Skeleton Coast sull’Atlantico, costellata da relitti d’imbarcazioni da cui il nome “Costa degli Scheletri”. Infine con le vastissime colonie di otarie, pellicani e fenicotteri rosa.

La Namibia è un paese dalle molte anime dove, nonostante alcune contraddizioni, oggi convivono in buon equilibrio l'Europa dei colonizzatori dei secoli scorsi – importanti cittadine come Swakopmund e Walvis Bay conservano tuttora l’architettura coloniale tedesca – e le tradizioni e i costumi autoctoni.

Herrero, Boscimani, Himba, Damara, Afrikaner, sono solo alcune delle etnie che abitano questo paese la cui densità di popolazione è tra le più basse al mondo, seconda solo alla Mongolia. Nei principali centri urbani lo standard di vita è assolutamente equiparabile a quello dei più avanzati paesi europei, mentre nei villaggi rurali dell’entroterra, la sopravvivenza quotidiana a volte è ancora legata alla mancanza certa di autosufficienza alimentare.
È una nazione giovane che ha conquistato la sua indipendenza dal confinante Sudafrica nel 1990 mantenendone però la sostanziale organizzazione politica ed economica, al punto di accettare come moneta per le comuni transazioni quotidiane, il rand sudafricano al posto del dollaro namibiano senza necessità di cambio.



Dopo un volo di 10 ore da Francoforte (dall’Italia non ci sono collegamenti diretti) si arriva a Windhoek, già “capitale coloniale” dell’Africa tedesca del sud-ovest nel 1892.
Costruita su un altopiano a oltre 1600 m sul mare, la città è situata proprio nel centro geografico della nazione. Da qui partono le strade, o per meglio dire le piste di terra battuta che raggiungono gli angoli più remoti e affascinanti del paese.

Puntando a sud-ovest si percorrono centinaia di chilometri con la sola compagnia della polvere sollevata dai veicoli. Il paesaggio circostante è arido e sassoso con un colore dominante ocra. Qua e là arbusti e isolati alberelli punteggiano il territorio abitato prevalentemente da sciacalli, piccoli roditori e babbuini e sorvolato da stormi di avvoltoi e solitarie maestose aquile. Tranne qualche cartello stradale e rare fattorie o altri piccoli insediamenti, non s’incontra altro di civilizzato.

Dopo circa 350 km si giunge all’area del Sossuvlei, luogo simbolo del deserto del Namib e compreso all’interno del Namib-Naukluft Park. Qui si osservano montagne di sabbia su cui molti si arrampicano per beneficiare dall’alto della vista mozzafiato, lanciandosi poi in temerarie discese di corsa o, per i più fantasiosi e sportivi, con tavole da snowboard.



Al centro di quest’area immensa si trova la DeadVlei (letteralmente “palude morta”) costituita da una depressione di sabbia bianca, l’antico fondo del lago, in cui spiccano scheletri di acacie vecchi anche mille anni. Un tempo florida oasi, oggi è completamente asciutta a causa della forte azione del vento che nei secoli ha prodotto lo spostamento delle dune circostanti al punto di deviare il corso del fiume Tsauschab che generava il sito. Il fiume è secco quasi tutto l’anno e solo in occasione delle rare piogge torrenziali torna a scorrere per pochi giorni ma ormai lontano dalla DeadVlei.

Il clima talmente secco e arido della zona ha impedito agli agenti patogeni, presenti nell’umidità dell’aria, di causare la naturale decomposizione degli alberi. La loro presenza è ora il motivo di maggior richiamo turistico per il singolare contrasto tra il colore scuro dei tronchi, il rosso delle dune e il bianco dell’argilla del terreno. Il trovarsi qui prima dell’alba regala uno spettacolo difficilmente descrivibile. Quando sorge, il sole inizia a disegnare geometrie di chiaroscuri tra le dune arancioni sul cui fondo si stagliano gli scheletri anneriti delle acacie, offrendo atmosfere spettrali e fantastiche.



Al tramonto, la DeadVlei assume nuove sfumature e colori intensi. La vallata è sovrastata dalla “Big Daddy”, la duna più alta al mondo che si erge per oltre 350 m. Scalarla con addosso il peso dell’attrezzatura fotografica e di altro equipaggiamento, costa fatica e sudore. Il continuo affondare nella sabbia a ogni passo, oltretutto su un crinale molto stretto, procura bruciore alle gambe e spossa il respiro ma l’incredibile spettacolo che si offre tutt’intorno, merita assolutamente l’impresa. Al tramonto le ombre si allungano e un occhio fotografico attento avrà solo l’imbarazzo nello scegliere il soggetto da immortalare.

Tra le dune e la sabbia, durante tutto il giorno, è assai frequente incontrare orici (la grossa antilope che della Namibia è anche il simbolo) e springbok, una piccola e agile gazzella, struzzi, gli immancabili sciacalli e altri animali anche rari come la iena bruna che ha abitudini notturne. Sul versante atlantico il Namib cambia aspetto. La sabbia ha una colorazione più chiara con riflessi oro secondo il tipo di luce che riceve. E anche la fauna, sulla costa, registra diverse presenze. In questa zona l’ecosistema naturale è fortemente condizionato dalla corrente del Benguela che dal Sudafrica risale per due, tremila chilometri interessando tutta la costa namibiana.

La costa atlantica è l’indiscusso regno delle otarie la cui presenza è stata stimata in milioni di esemplari. Famosa per esempio la colonia di Cape Cross dove per primo sbarcò, intorno al 1500, il navigatore portoghese Diogo Cão che a ricordo dell’impresa fece erigere una grossa croce in onore del re del Portogallo, decretando così anche il nome della località.

A Walvis Bay sarà soprattutto il colore rosa intenso dei fenicotteri, anch’essi numerosissimi, a imprimere la memoria dei viaggiatori che potranno ammirare le eleganti evoluzioni in volo in formazione o i rituali di corteggiamento a pochi metri dalla riva. E poi pellicani, cormorani, garzette, gabbiani e avocette. Insomma un autentico paradiso ornitologico!



Ma il vero trionfo faunistico si avrà senza dubbio all’interno dell’Etosha Park, risalendo verso settentrione e rientrando nell’entroterra a nord di Windhoek.
Il safari fotografico (fortunatamente l’unico consentito in questa enorme area controllata di circa 23.000 kmq) è l’attività principale per i fotografi naturalistici. Elefanti, zebre, giraffe, ghepardi, leoni, struzzi, kudu, rinoceronti, eland, orici e tanti altri. Una vera arca di Noè.

Spingendosi ulteriormente a nord e accompagnati da una guida capace, si possono incontrare gli Himba, popolo nomade originario della Namibia dedito prevalentemente alla pastorizia che ha mantenuto il proprio tradizionale identitario stile di vita. Vivono in capanne troncoconiche di pali e ricoperte di fango e sterco di animali. Soprattutto le donne sono famose ed esteticamente apprezzate per il loro “look” tribale unico e inconfondibile e per il colore rossastro della pelle, dovuto all’abitudine di spalmarsi il corpo con un impasto di erbe, terra ocra e grasso di capra. Ciò non solo funzioni estetiche, ma per proteggersi da punture d’insetti e dai cocenti raggi del sole. Hanno un’indole mite e sono piuttosto abituati “agli stranieri” e ai turisti, ma è sempre opportuno usare un approccio rispettoso della loro dignità e fierezza. Se sarete accolti in un loro villaggio, i primi a farsi incontro saranno certamente i bambini. Sorridenti, vocianti e con fare insistente ma innocente e disponibili a mettersi in posa. Gli Himba non sono ben visti dalle autorità namibiane per la loro fiera riluttanza a integrarsi con i modelli di vita contemporanei. Le stesse tendono a “dimenticarli”, ma essendo da tempo anche uno dei motivi d’interesse dei viaggiatori, tollerano la loro presenza nel territorio. Al momento si contano non più di dodicimila Himba.

Un viaggio in Namibia è quindi un concentrato di emozioni e scoperte naturalistiche, paesaggistiche ed etnografiche che penetra nell’anima del viaggiatore imprimendo ricordi indelebili.




Enrico Barbini

Nasce a Roma nel 1960 ed è laureato in scienze sociologiche. Inizia a dedicarsi alla fotografia nel 1989 a seguito di una vacanza in Jugoslavia. Rientrato a casa, acquista la sua prima reflex a pellicola e, invogliato dalle potenzialità del nuovo strumento, da autodidatta inizia a studiare su manuali di tecnica fotografica e libri con le opere dei mastri del passato e contemporanei e facendo riferimento alle principali riviste di settore.
Con il passaggio al digitale, stimolato dalla maggiore possibilità di condivisione e anche da alcuni positivi riscontri, ha frequentato corsi avanzati di fotografia nella scuola romana di “Officine Fotografiche” e tecniche d’illuminazione presso lo “Shooting Factory” di Formello (RM). Negli anni ha anche preso parte a diversi workshop tematici con importanti e autorevoli esponenti della fotografia italiana e internazionale.
Ha partecipato a numerosi concorsi fotografici sul territorio e sul web, vincendone alcuni e con buone affermazioni in genere. Molte sue fotografie e articoli di reportage sono pubblicate sulle più diffuse e importanti riviste fotografiche italiane, quali “Fotografare”, “Fotografia Reflex”, “Digital Photographer” o in autorevoli siti come National Geographic e Nikon Italia. Pur non disdegnando esperienze in vari generi fotografici, da alcuni anni si dedica maggiormente ai reportage di viaggio e foto di natura e paesaggio. Collabora alla docenza di corsi di fotografia con il Foto Studio Stefano Ioncoli di Ronciglione (VT).

www.enricobarbini.com

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