Isole Faroe: ad un passo dal paradiso

A cura di: Cristiana Benini

di Cristiana Benini

 

Dopo tanto oceano, avvistare le Isole Faroe è come scorgere i segni di un paradiso perduto.
Le isole affiorano dalle onde alte e coperte di un manto verde intenso: è surreale, ma sembrano le cime di montagne sommerse.
Arrivo giovedì 4 giugno. Sono le nove di sera, ma è pieno giorno; mi abituerò subito che qui, come in tutto il grande Nord, l’estate non conosce il buio.

Le Faroe sono un arcipelago sperduto nell’atlantico, a metà strada tra l’Islanda e la Scandinavia.
In Italia sono quasi sconosciute. Molti ne hanno scoperto l’esistenza solo in occasione del match con la nazionale di calcio italiana nello scorso novembre.

Atterriamo sull’isola di Vagar, dove c’è l’unico aeroporto dell’isola.
Troviamo ad accoglierci John Eysturoy e Hildur Durhuus, dell’ente del turismo. John ci accompagnerà per quelli che si riveleranno 4 giorni fuori dal nostro mondo.

Con la mia Nikon D60, corredata dei suoi due obiettivi zoom, il 18-55 VR per splendide vedute e il 55-200 VR per non lasciarsi sfuggire ogni dettaglio, percorro strade deserte che attraversano la montagna e passano sotto il mare, grazie a tunnel sottomarini profondi 200 metri. E sul ciglio della statale vedo decine e decine di pecore, bianche, nere, pezzate, sole e in gruppo, spesso con i piccoli che si rincorrono tra di loro: se la popolazione complessiva dell’arcipelago conta 47 mila anime, le pecore costituiscono il gruppo di esseri viventi più numeroso, con ben 72 mila esemplari che vivono in assoluta libertà come bene prezioso di tutta la comunità: queste pecore non appartengono a nessuno e sono la ricchezza di tutti.

John mi spiegherà più avanti che il numero delle pecore è rimasto invariato dal 1584, perché è il numero massimo che l’isola può sostenere.

Così comincia il mio soggiorno, che vede come prima tappa Torshavn, la capitale nonché la città più grande con i suoi 19 mila abitanti.
Torshavn si affaccia su un ampio porto: il 95% dell’economia si basa sulla pesca.
Le case tradizionali, di legno verniciato di nero e dalle finestre verdi, hanno sotto la grondaia dei ganci per appendere la carne di pesce ad essiccare.

Fino a qualche anno fa le Faroe esportavano anche in Italia il loro buonissimo stoccafisso: ma oggi anche le loro acque soffrono del depauperamento ittico che affligge tutti i mari del mondo, e di pesce intorno all’arcipelago ne è rimasta una quantità non sufficiente all’esportazione.

Il porto è pieno di imbarcazioni: grandi pescherecci parcheggiati ed una fila di coloratissime barchette dai nomi tipicamente femminili.

Il pranzo mi rivela degli aspetti molto interessanti della vita in questo arcipelago: se l’alimento principale è naturalmente il pesce (la prima portata del pasto tradizionale è l’aringa), la maggior parte dei beni viene importata, perché sulle isole non cresce niente: i venti fortissimi permettono solo a poche specie di piante di nascere, per cui la terra è coperta solo da un fitto manto erboso, tanto rabarbaro, e pochissimi alberi: nel 1988 una tempesta li ha sradicati quasi tutti.

Così queste isole si presentano nude di un fascino selvaggio. Lo vivo tutto grazie a un lungo giro in barca che mi porta da Klaksvick (la seconda città più grande dell’arcipelago) a Enniberg, il promontorio più alto d’Europa: 750 metri di roccia a picco sul mare mossa solo dal volo di centinaia di uccelli che vivono nelle sue insenature e ci volano intorno mentre mi avvicino.

Tra questi scogli ho anche la fortuna di scorgere gli occhi di una foca che mi osserva mentre si lascia cullare dalle onde che bagnano questo luogo unico al mondo.



 
 

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