Immagini realizzate in luoghi diversi e distanti, dimostrano come nell'essere umano ci sia qualcosa che induca agli stessi gesti e alle stesse attese.
Sono sempre stato affascinato dall'incontro fra l'umano e il divino. E, soprattutto, colpito da come, anche nelle culture più diverse, si ritrovino elementi assolutamente comuni. La preghiera, l'offerta, il silenzio. Come se nell'essere umano esistesse qualcosa che lo spinge a cercare gli stessi aspetti, gli stessi gesti, le stesse attese. Potremmo chiamare tutto questo “suggestione”, “desiderio di sfuggire alla morte”, o forse “semplice risposta all'incapacità di comprendere”. Ed essere in luoghi diversi del pianeta e osservare gli occhi degli uomini in preghiera porta a percepire quel qualcosa che appunto non è spiegabile. Non so ancora se la fotografia possa restituire l'inspiegabile, ma è certo un mezzo d'indagine quanto meno esterno alla coscienza di chi osserva.
Nella foto del monaco con il bambino, scattata nel tempio di Swayambhunath a Kathmandu, capitale del Nepal, la scena che si palesa davanti ai miei occhi di occidentale è quanto mai singolare: il bambino gioca sulle gambe del monaco. Lascia rotolare su di lui un barattolo, tira il tessuto dei pantaloni, ogni tanto si appoggia. I suoi occhi corrono sul viso del monaco che continua a leggere i suoi sutra. Dopo venti minuti circa, il monaco si alza e prosegue il suo cammino. Non una parola fra i due, non un cenno. Ero convinto fossero insieme. Invece no.
Lo stesso spazio, lo stesso tempo, condivisi senza parole, senza gesti. Solo un esistere.
La foto del pellegrino, paradossalmente, ha ricevuto qualche critica. Il soggetto, un pellegrino polacco, dicono, è “troppo in posa”. Lo incontro invece in una piazza di Assisi. Non parla inglese. A gesti gli chiedo se posso fargli una foto. A gesti mi dice di sì. Mentre tiro fuori la macchina dallo zaino e mi appresto a inquadrare, lui indica il cielo dicendo qualcosa che non capisco. Ma io scatto lo stesso.
Un regalo della vita.
L'immagine dell'uomo che si sta per tuffare nel lago di Xihai a Pechino è un altro dono. Passando con il risciò, vedo qualcosa che mi appare incredibile. Sono vestito con giacca a vento, berretto e guanti. Siamo a gennaio. A Pechino ci sono circa -3°C. Scatto incredulo mentre il risciò procede lentamente. L'amore per Gaia, la Madre Terra, spinge gli uomini a gettarsi nell'acqua gelida. Sullo sfondo, sopra la coltre di ghiaccio, si intravedono slitte e persone che pattinano. L'uomo che si sta per tuffare, quando esce dall'acqua, vedo che ha circa 70 anni.
Nell'immagine che ho intitolato “luce siamo in India”, l'uomo è un sadu, ovvero uno che sceglie di abbandonare tutto per dedicare l'ultima parte della sua vita a Dio, in povertà. Vive li, nel portico che si intravede alle sue spalle, insieme ad altri cinque sadu. Tutte le sere fanno un'offerta al Gange, pregano e accendono candele.
Il lumino nelle sue mani mi sembra un sole.
La signora in preghiera a Kathmandu si è prostrata completamente a terra, per tornare alla posizione che ritraggo nello scatto, per almeno un'ora e mezza. Io non ce l'avrei fatta.
Nel lavoro fatto alla Sacra di San Michele, da cui nasce il mio libro “Anima Sacra”, ho visto migliaia di persone passare dal buio dello scalone dei morti alla luce di fuori. Nelle giornate di sole l'occhio non può guardare verso l'uscita dello scalone perché la luce è troppo intensa. Le persone si dissolvono letteralmente in essa.
Insomma, nei miei giri per il mondo ho trovato sempre qualcosa. Qualcosa che è sempre qui, dentro di noi.
In ogni uomo, sempre. E nel momento in cui non pensiamo ma fotografiamo, come se noi non esistessimo, la vita si svela.
Attualmente lavoro con una Nikon D800 a cui abbino gli obiettivi AF-S Nikkor 24-70mm f/2.8G ED, AF-S Nikkor 70-200mm f/4G ED VR e il fantastico AF-S Nikkor 14-24mm f/2.8G ED.
Il file Nef della D800 (il Raw di Nikon) è eccezionale poiché restituisce una grande quantità di informazione sia nelle ombre sia nelle luci. Ciò mi consente, intervenendo bene sul Nef, di non eseguire tre diverse esposizioni dello stesso soggetto, cosa per altro molto difficile da fare in situazioni di reportage.
Utilizzo spesso un HDR ammorbidito. Non amo il contrasto forte e falso che i programmi di gestione dell'HDR restituiscono.
Riporto sempre l'immagine in Photoshop e cerco di renderla più morbida, alle volte fondendola con l'originale, delle altre lavorando per passaggi successivi con il contrasto e le curve. Spesso lavoro localmente per far sì che le zone di luce emergano rispetto al resto.
La luce esce dall'essere umano per illuminare il mondo.