di Elena Givone Il progetto Flying away nasce dal desiderio di poter donare qualcosa ai bambini che vivono in comunità carenti. Qualcosa che li aiuti a crescere, e che ricordi loro quanto sia speciale poter credere nei propri sogni, ma soprattutto che i sogni non costano nulla. Mi trovavo in Brasile, grazie alla vincita di un premio per giovani artisti (moovin' up - del G.A.I. – giovani artisti italiani) che mi permetteva di esporre il mio lavoro nel museo d'arte contemporanea di Florianopolis, e allo stesso tempo in cambio davo lezioni della visione che ho acquisito in Europa sulla fotografia, un workshop intitolato “la fotografia come arte”.
Durante la mia residenza in Olanda, negli ultimi due anni sono stata volontaria attiva in un progetto che si chiama Paint a Future, il quale si occupa di cooperazione e della realizzazione dei sogni dei bambini attraverso la vendita di opere d'arte. Il desiderio di andare oltre alla mera documentazione della miseria misto al desiderio di lasciare qualcosa per sempre a questi bambini, mi hanno spinto verso il progetto Flying away. ( Nei miei sogni c'è sempre il desiderio di riuscire a raccogliere dei fondi per la costruzione di una scuola, un centro dove i bambini possano incontrarsi e sviluppare la loro creatività, giocare serenamente, disegnare, studiare… sognare… ma è un compito che richiede l'unione di più forze). Sarebbe stato troppo semplice fotografare i bimbi, che purtroppo vivono in condizioni precarie. Mi premeva sapere se anche loro credessero al fatto che sarebbero rimasti poveri per sempre, se credevano alla possibilità che esistessero luoghi fantastici privi di sofferenza... Mi inventai una storia che raccontavo ad ognuno di loro…
“C'erano una volta un mago ed un bambino molto povero. Questa era la storia che raccontavo ai bambini che andavo a trovare nelle favelas di Palhoça, a Florianopolis nel sud del Brasile nello stato di Santa Catarina. Volevo sapere dove sarebbero andati se avessero potuto volare via, dove li avrebbero portati le ali della loro fantasia, che mondo sarebbero riusciti a vedere immaginando di guardarlo dall'alto. Purtroppo, una gran parte di loro non è stata capace di immaginare nulla. In Brasile la maggior parte della popolazione sopravvive alimentandosi di “ciò che trova”. Le opportunità scarseggiano, il sistema scolastico, di bassissima qualità, non permette alla popolazione di crescere e di svilupparsi adeguatamente, per trovare soluzioni rapide a colmare le lacune create da tale mancanza.
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Con la raccolta di 100 lattine di alluminio, ottieni 5 reais, equivalenti ad 1,50 euro. Madri non appena 12enni, padri consumati da questa società infettata. Comunità carenti, così vengono chiamate le favellas brasiliane. Favellas, il nome deriva da sfa-vellados, che anticamente significava coloro i quali non avevano nulla neanche una candela per fare luce e scaldarsi. Luoghi comuni, stereotipi. I brasiliani che invece non vivono in questi luoghi, hanno il terrore solo nel passargli in fronte. Si comportano come se questi blocchi della società non siano esistenti, proteggendosi con auto blindate, mandando i loro figli in scuole private e non uscendo mai tranquilli di casa. Un po' come chiudere gli occhi, un desiderio costante di non guardare ciò che gli occhi non vogliono vedere.
Come fotografa, mi sono imposta di non fotografare la miseria e la povertà in quanto tali, ma di cercare di alleviare questa sensazione e loro situazione, andando oltre; questo mi rende impegnata quotidianamente con questa realtà Brasiliana, spingendomi a conoscere ed approfondire le problematiche di questo paese, soprattutto indagando sulle nuove generazioni, sui loro sogni e desideri. Saranno loro, effettivamente, gli unici che potranno modificare alcune cose e contribuire a permettere al Brasile di trasformarsi davvero in un “Mondo Nuovo”. |
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