85 Dakar in tutto

A cura di: Gigi Soldano

Come si vive in un fuoristrada per venti giorni, durante la Dakar? Ce lo racconta Gigi Soldano, fotografo sportivo che, in compagnia di due colleghi francesi, ha fotografato con la Nikon D4 l'edizione di gennaio

Da spettatore o da attore? Così mi si era presentata questa Dakar. E avevo dovuto scegliere alla svelta. Accompagnarmi a quel gruppetto di personaggi che mi dava sicurezza professionale ma allo stesso tempo inverosimile turbamento, sarebbe stata la mia scelta finale.
Diversamente una gara così non la reggi sino in fondo! Una scelta precisa la mia.

Dopo tre anni di ripensamenti e giustificazioni date a me stesso, stavo ritornando alla Dakar, la mia 25esima edizione.

Sapevo già che non sarebbe stata come le altre, quelle africane per intenderci, anche perché il primo anno della Dakar sudamericana l’avevo già provato. Ma dimenticato.

Vi sentite persi anche dopo poche ore trascorse in solitudine? In caso affermativo, potrebbe non piacervi la vita del “fotografo astronauta”. Si, perché quello che stavo per iniziare, era il mio viaggio spaziale. La mia navicella spaziale, una Nissan Patrol Press n 1000, dove mi aspettava il terzo famigerato posto a sedere, era pronta!

Con me Jean Aignan Museau, fotografo e addetto alla navigazione e all'orientamento, ed Eric Vargiolù, fotografo e primo pilota nonché capo pattuglia. Il sottoscritto, secondo pilota, fotografo e addetto alla trasmissione satellitare dei file fotografici.
Attrezzature Nikon ovviamente e una fantastica Nikon Df per divertirmi.
In un certo senso, vivere in una stazione spaziale è un po' come fare naufragio su un'isola deserta. Un equipaggio di due o tre astronauti deve sopravvivere lontano da casa per settimane.

Per garantire il successo della missione, si deve imparare a vivere e lavorare assieme come una squadra. Questo può non essere facile se non ci si conosce sino in fondo.

A bordo, tutto diventa importante come l’ordine, la pulizia (la sabbia è ovunque), la gestione dei viveri (razioni di cibo e acqua) ed eventuali e impreviste piccole riparazioni: sei forature di pneumatici in due settimane. E un insabbiamento.
Non per ultimo la scelta degli itinerari e delle aree dove svolgere il proprio lavoro in funzione di rischi, pericoli e difficoltà. Ma questo lo si sa. Più sono difficili e più sono belle… Alla ricerca dell’“effetto panorama”.
Un’unione di forze che, sommando le singole presenze alle precedenti edizioni, formava un team con alle spalle ben 85 Dakar. Impressionante e rassicurante allo stesso tempo.

Il nostro compito era quello di spalleggiare e fornire immagini “live” della corsa al rimanente team dell'agenzia D.P.P.I. che si spostava diversamente da noi con altri mezzi (aerei e di terra) e con tempistiche assolutamente strette.
Compito durissimo che ci avrebbe impegnato praticamente a tempo pieno, giorno dopo giorno.

Quei due li conoscevo da tempo ed esserci ritrovati sul campo mi esaltava e dava forza.
Due veri “professori”, sia di vita, sia di lavoro. I miei acciacchi fisici da cittadino metropolitano, passata la prima notte sotto le stelle, sul materassino, erano praticamente scomparsi e l’aria delle Ande mi dava un senso di purificazione straordinario e di pace spirituale.
I venti giorni trascorsi nella “navicella spaziale” mi avrebbero fatto rivivere quella spettacolare sensazione del dover condividere momento dopo momento il tuo tempo con altre persone. Quel tempo che non è più tuo, ma di tutti. Il tuo viaggio, le tue esigenze, i tuoi pensieri diventano comuni e devi condividerli. Se non lo fai è la fine.

E così arriva il momento della sveglia fisico-devastatrice, del mangiare sempre poco e male, del poco dormire (possibilmente non alla guida), del lavoro e delle scelte difficili. Ma anche quello del ridere spensierati inventandoti scenette impensate davanti a una macchina fotografica che silenziosa registra tutto. I nostri “selfie”.

Una muta testimone che giorno dopo giorno fotografava il nostro cambiamento. I nostri comportamenti insoliti, il parlare sempre più spiccio (sempre in francese) e la mutazione del nostro aspetto fisico.

Un gruppo, noi altri, che alla fine ha sempre avuto, come si dice fra noi del mestiere, la luce a favore e che mi ha dato equilibrio e determinazione in ogni momento. Anche quando la pista si faceva sempre più stretta, impervia e senza tracce. Quando tornare indietro non era più possibile e avanzare significava scegliere una sola volta e non sbagliare più. Senza ansia!

La Dakar è finita e la nostra missione è stata raggiunta. Il nostro lavoro lo troverete presto nelle pagine del libro ufficiale di ASO della gara 2014.
Domenica 20 gennaio, a gara finita, siamo tornati alla normalità e ci siamo rasati quei segni evidenti di fatica e sacrificio dal nostro volto. Piano piano però, perché dopotutto tanto male non si stava. E sono tornato più essere umano!

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