Quando per la prima volta, un anno fa, visitai il cimitero di Staglieno, bastarono pochi passi per essere sopraffatto dal fascino delle statue poste sopra ogni tomba. Camminare nelle gallerie, di cui alcune illuminate dalla luce esterna, altre molto buie, mi impressionò moltissimo.
Circondato da figure bellissime e terribili, l’unico rumore che sentivo era quello prodotto dalle lapidi di marmo che si muovevano sotto il peso dei miei passi. Ciò mi ricordava che non stavo solo ammirando sculture poste a ricordo di persone morte da molto tempo, ma che stavo anche sostando sopra le loro spoglie. Dopo essermi addentrato solo poche decine di metri, sarei voluto uscirne.
Solo allora mi accorsi della mia macchina fotografica: ero andato in quel luogo con l’idea di catturare qualche bella immagine. Non ero pronto a quella quantità di volti, che mi guardavano, esprimendo dolore, speranza, preghiera, disperazione, rassegnazione, pace…
Invece di tornare sui miei passi, inquadrai la statua di una giovane donna: il volto rivolto verso l’alto, il marmo grigio coperto da decenni di polvere. Sul collo, striature bianche rivelavano il candore del marmo, quasi come lacrime che accentuavano il dolore che la statua innalzava al cielo attraverso il suo sguardo.
Scattai una foto e passai alla statua successiva: una bambina e un uomo privo della vista, entrambi posti dinanzi alla tomba di un noto benefattore di orfanotrofi e di un istituto per ciechi. Continuai a fotografare accorgendomi a ogni scatto che mentre cercavo le inquadrature, il mio timore lasciava posto al piacere di riprendere quelle figure bellissime. Passarono così le ore.
In quei lunghi corridoi e gallerie, di tanto in tanto, incontravo qualche anziana signora intenta ad accudire alla tomba di un parente. Raramente ne incrociavo lo sguardo. Alcune di loro, vedendo che scattavo fotografie, mi si avvicinavano con curiosità mostrandosi felici che qualcuno fosse ancora interessato alla bellezza del luogo, indicandomi quindi nuovi percorsi e statue da vedere.
Questi incontri sono stati ricchi di profonde emozioni. La mia generazione raramente manifesta devozione verso i defunti, cosa alquanto naturale invece per la generazione dei miei genitori e dei miei nonni. Questi la coltivavano come parte importante della loro vita.
Le donne percepivano che non ero uno dei tanti visitatori del cimitero - nelle gallerie più remote e più buie i turisti non si addentrano – e mi indicavano altre lapidi, raccontandomi la storia di persone che riposavano accanto ai loro cari come fossero parte della loro famiglia. Si prendevano cura delle tombe vicine e dividevano i fiori fra queste e quelle dei loro defunti.
Tornai a Staglieno più volte, scattando centinaia di fotografie, deciso a concentrarmi soprattutto sulle gallerie dell’antica parte monumentale che accoglie quasi trecento cappelle e più di quattrocento nicchie (l’intera area del cimitero copre più di 330.000 mq, con più di due milioni di sepolture).
La selezione delle immagini è durata più di un anno. Volevo evitare di comporre un portfolio troppo numeroso, ma nel contempo rappresentare uno degli aspetti di questo luogo che più mi ha colpito: la sua vastità e il numero di statue che accoglie.
Ho trascorso così tanto tempo vicino a queste sculture, leggendone i volti e le epigrafi, che riportarne una limitata selezione mi sembrava di tradire il ricordo al quale sono legato da un profondo affetto. Parte però integrante della nostra passione per la fotografia è anche la selezione che accompagna ogni nostro progetto: distillarne l’essenza per rendere più fruibili i contenuti e più piacevole la loro scoperta.
Ciò che mi ha regalato questa esperienza non è soltanto un’immensa raccolta di immagini, ma bensì la scoperta di quanto forte sia la passione che ci porta a compiere ciò che amiamo. Questa ci spinge a vincere timori, a illuminare parti di noi stessi ancora sconosciute e, attraverso la nostra arte, a comprendere quella espressa in opere create da chi ci ha preceduto. A noi il compito e il privilegio di farne rivivere la memoria.
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