L’inverno stringe la sua morsa ogni giorno di più, per uomini e animali. Dopo gli “amori di novembre”, qualche coraggioso camoscio si ostina a restare in quota. Le grandi nevicate sono lì, a ricoprire l’erba sempre più difficile da grattare con lo zoccolo. Qualche ciuffo resta a disposizione, anche quando intorno tutto è bianco, immacolato. In questa magia, la Nikon D600 - con varie lenti e in digiscoping – ci ha accompagnato alla ricerca dei camosci alpini.
Il cuore di un camoscio può battere a 600 battiti al minuto. I suoi muscoli, potenti ma fluidi, sembrano fatti apposta per la corsa e le scalate. Solidamente piantato su zampe robuste e zoccoli forti, è un modello di adattamento al severo habitat della montagna. Teso come un arco, vibrante, con tanta potenza a disposizione, il camoscio evoca la velocità pura e la forza, anche quando sta a riposo.
Di fronte alle partenze folgoranti, anche sulla neve, agli arresti sui quattro zoccoli, ai salti dove sembra appena sfiorare la terra, e soprattutto di fronte all’incomparabile eleganza del suo galoppo, si è tentati di parlare di leggerezza e rapidità. L’eleganza e la forza nascono infatti dall’accordo fra le linee e il volume: da tutto questo risulta un’armonia profonda fra le possibilità del camoscio e le sue esigenze di vita.
Quando, però, al suo naso umido arriva un odore sconosciuto, o anche il rumore più impercettibile, eccolo all’erta. La coda si fa dritta, le narici dilatate interrogano il vento, la testa è leggermente girata, gli occhi cercano in ogni angolo e le orecchie si orientano in direzione del pericolo. Tutto è teso a decifrare e comprendere l’origine e il tipo di rumore sospetto.
Lo sanno bene i fotografi, che non avvicinano mai un camoscio con il vento alle proprie spalle e non muovono neppure un sasso con gli scarponi. Ancora immobile fino al momento in cui la distanza di fuga non viene infranta, il camoscio non esita a mettersi repentinamente in movimento, con una fuga leggera e veloce, che si ferma soltanto per un breve stop – immancabile – per controllare la situazione. Dopo, lo possiamo vedere impegnato al pieno galoppo della paura. Un fuoco d’artificio.
Al fotografo di montagna spetta il non facile compito di cogliere tutti questi aspetti, soprattutto il naso umido, gli occhi e le espressioni di questo straordinario animale. Nel corso dei nostri ultimi workshop dedicati ai camosci, abbiamo cercato di catturare in un file queste magie.
Lo abbiamo fatto con la nuova Nikon D600, reflex FX che non ha nulla da invidiare alla cugina maggiore, la D4. A entrambi i corpi reflex, abbiamo abbinato il meglio, oggi, nei tele-zoom (l'AF-S Nikkor 200-400mm f/4G ED VR II) e un telescopio da osservazione terreste di grande qualità.
Ma abbiamo sbagliato l’impostazione del test “comparativo”. Certo, abbiamo realizzato ottime immagini con entrambi i sistemi fotografici, e la D600 ha risposto con un’adattabilità oltre ogni previsione, ma ci siamo resi conto che, a chi guarda una fotografia di un camoscio, poco interessa il sistema fotografico e/o la lente che l’abbia creata.
La cosa più importante, infatti, è che la foto “parli”. A prescindere dalle lunghezze focali e dai crop, è fondamentale cogliere gli occhi, il naso umido, l’espressione di questo selvatico alpino. In questo modo, l’unica differenza fra il telescopio e il super-tele, non è tanto l’ingrandimento del soggetto nell’immagine finale, bensì la profondità di campo: ampia con il super-tele (anche ai diaframmi più aperti), offre sfondi leggibili; ridottissima con il diaframma fisso del telescopio, permette di ottenere quel grande effetto di isolare il soggetto da uno sfondo volutamente poco leggibile.
Certo, in digiscoping, la messa a fuoco – rigorosamente manuale – deve essere estremamente precisa (talora fino ad avere a fuoco il muso e leggermente sfocato il dorso), ma il poter stare fuori scena, a distanza, e avere soggetti tranquilli, frontali e non in fuga a perdifiato, rappresenta per noi un vantaggio irrinunciabile.
Aggiungiamo – ma ne riparleremo – le grandi prestazioni che le reflex FX, come la D600, offrono nel campo del digiscoping (che, fino a ieri, era territorio esclusivo delle compatte e delle mirrorless).
Ma torniamo ai camosci, veri protagonisti di queste uscite invernali. Le “follie” degli amori, tra la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno, sono un lontano ricordo. All’inizio dell’anno, vestono il caldo ed elegante mantello scuro invernale. Con l’arrivo della neve, i grandi branchi, formatisi per la stagione degli amori, iniziano a sciogliersi. I maschi non si battono più tra loro. I giovani, non più turbati dall’indifferenza della madre, riguadagnano il loro posto al seguito della protezione materna.
L’incontro più frequente, ora, è di piccoli branchi di femmine e giovani camosci, con la totale esclusione dei maschi adulti. Questi hanno fatto il loro dovere riproduttivo e preferiscono starsene in pace, da qualche altra parte.
Pochi branchi e qualche capo isolato, si ostinano a restare fra gli alpeggi in quota, fedeli alla loro rimessa fra le rocce più inaccessibili, o in prossimità delle creste da cui il vento ghiacciato spazza la neve e scopre l’erba gelata che scrocchia sotto i loro denti.
Ma la maggior parte dei camosci ha ormai guadagnato la protezione della foresta. Qui, il vento è meno feroce e gelido. La neve è meno compatta. I rami scoperti hanno conservato poche foglie secche per soddisfare la fame. Un po’ di erba la si trova talvolta anche ai piedi dei vecchi alberi, quelli che restano verdi anche d’inverno. La vita è dura, comunque, e la neve sembra non sciogliersi mai: ecco perché non dobbiamo orientare le lenti verso le distese immacolate, dove talora non vediamo neppure una traccia, una pista.
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Meglio concentrare l’attenzione verso il sottobosco, sotto i grandi larici e gli abeti; oppure verso le pareti scoscese, quelle che sono la patria degli stambecchi, ma che negli inverni più duri, ospitano anche gli zoccoli (meno dotati, ma comunque forti) dei camosci.
Malgrado la neve e il gelo, i giovani ritrovano la madre, meno inquieta e più protettiva dei mesi passati. Prima, durante la stagione degli amori, i piccoli non comprendevano i motivi della sua “freddezza”: ora, staranno con lei per tutto l’inverno. Insieme affronteranno febbraio, il mese più difficile in montagna. Il mese in cui ogni speranza sembra aver abbandonato la terra; il mese in cui la fame grida troppo in alto, verso la valle, verso le zone che limitano i campi degli uomini, con l’abominevole odore dei camini fumanti e delle concimaie che traspirano sotto il freddo, davanti alle baite.
A marzo, i giorni cominciano un po’ ad allungarsi. Ma sono il freddo e il gelo a farla da padrone.
In alcune giornate, però, un vago sentore di primavera, si diffonde nell’aria: sono quei giorni in cui il cielo basso non grava più con il suo peso sulla terra morta e la speranza si risveglia nel cuore e nel corpo degli animali liberi.
In qualche notte, poi, ha piovuto nella foresta e sugli alpeggi: ciò è sufficiente per iniziare ad allagare l’inverno. Ogni giorno, ora, e ogni giorno di più, la neve inizia a sciogliersi. Gli alberi della foresta iniziano a rivestirsi di foglie e la prima erba verde riappare sul terreno: questo è un richiamo troppo forte per i camosci stremati dal lungo inverno.
Sta per arrivare la primavera, la tanto attesa primavera. In questo sentore di erba nuova, avvertito dagli animali ancor prima di vedere, i camosci non esitano a buttarsi verso valle. Il richiamo dell’erba novella li fa più coraggiosi.
Per i fotografi, questo periodo è sicuramente il più favorevole. L’esperienza poi insegna ad animali e uomini a frequentare con assiduità i versanti a sud, dove il sole ogni giorno più caldo scioglie prima la neve. Su questi versanti, l’esposizione al sole dura fin quasi al tramonto. Non è difficile localizzarli: l’incontro con gli animali è assicurato, anche quando tutto intorno la neve domina il panorama.
Ecco perché ritorneremo, anche in questo spazio web, a parlare di camosci e stambecchi. Lo faremo curando, giustamente, le attrezzature (sia in digiscoping sia con i super-tele), ma senza paragoni o pagelle. I due sistemi hanno pieno diritto di cittadinanza nel nostro zaino, ma è inutile negare che rappresentino un diverso tipo di dialogo con la Natura. A presto!