Amatrice novembre 2016

A cura di: Damiano Andreotti

Una cittadina calda e ospitale che il sisma dello scorso 24 agosto 2016 ha trasformato in un enorme cumulo di macerie. Apprendo la notizia, torno a visitarla e rivivo, tra nostalgia e dolore, i meravigliosi ricordi del 2014.


Visitai per la prima volta Amatrice il 10 agosto 2014. Un caro amico e collega decise di sposarsi a San Lorenzo a Flaviano, una delle 69 frazioni della cittadina. Un luogo abitato da gente che ti dà tanto subito, senza voler niente in cambio. Quando la mattina del 24 agosto 2016 vidi quelle immagini sui notiziari, ebbi la sensazione che anche un pezzo di casa mia fosse crollata. Attesi l’inverno e decisi di percorrere quei 700 km che mi separavano dall’Appennino.

Lo zaino con le fotocamere era leggero: una Nikon D4s, l’AF-S Nikkor 14-24mm F/2.8G ED e l’AF-S Nikkor 85mm f/1.4G. Avevo un paio di numeri di telefono salvati sul cellulare e una stampa di Google Maps con delle linee rosse che mi indicavano la strada migliore per arrivare al campo. Arrivai la sera. Era buio. Poche luci mi facevano intravedere cumuli di macerie a lato della strada.

Mi sentivo disorientato benché avessi chiaro in mente il ricordo di quei posti così caldi e ospitali. Non riuscivo a riconoscere nulla. Arrivai al campo di San Lorenzo e Rio. Il freddo era pungente. Un po’ di neve aveva imbiancato il paesaggio. L’ospitalità però non era stata minimamente intaccata dal sisma. Gli otto abitanti rimasti in quella frazione mi offrirono la cena e un divano su cui dormire.

La mattina dopo mi svegliai presto. Incontrai Piero. Stava andando nei campi a occuparsi delle bestie. Lo seguii con la macchina fotografica a tracolla. Cominciarono i racconti. Nei giorni seguenti cambiarono i narratori ma tutti volevano condividere la loro storia. Mi guardavo attorno. Mano a mano che ci avvicinavamo al centro del paese, le macerie e la distruzione si facevano più presenti. E più la devastazione aumentava, più i racconti si facevano densi di dettagli. E io meno riuscivo a capire come fotografare quello che mi circondava.

Quella mattina non scattai quasi nulla. Girai molto in quei giorni, a volte solo, a volte accompagnato. La mia attenzione cadeva spesso sui dettagli delle abitazioni messi a nudo dai crolli dei muri perimetrali, ma nessuna immagine riusciva a trasmettere quell’ondata di informazioni e sensazioni che mi rimbalzavano tra mente e cuore.

A un certo punto mi trovai davanti a una vecchia chiesa semidistrutta. Davanti al portone un cumulo enorme di macerie. Montai l’obiettivo da 14 mm e iniziai a scattare, ma anziché allontanarmi dal soggetto cominciai ad avvicinarmi. Volevo stare il più dentro possibile alla scena. Mi abbassai per trovare la giusta inquadratura e il sole mi batté dritto in camera. A quel punto mi fu chiaro: volevo trovarmi di nuovo dentro quelle case che mi aprirono le porte con tanta spontaneità nel 2014. E volevo vedere la luce oltre la distruzione, quella luce che Antonella, Piero, Gino, Massimo, Mauro e Ottavio si sforzavano, con tutte le loro forze, di vedere ogni istante della giornata.

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