KONGAKUT: Un'avventura ai confini del Mondo

A cura di: Michele Dalla Palma

di Michele Dalla Palma

Osservo la coda acciaccata del minuscolo aereo di Tom liberarsi dalle sterpaglie della tundra e arrancare nell'aria. Alternando fragorosi e sibilanti fuorigiri a vuoti di motore come colpi di tosse di un vecchio asmatico, il velivolo sale lentamente sopra di noi, in stretti giri concentrici, fin quando lo spazio tra i due crinali del fiume gli permette una lunga cabrata verso sud.
Mentre l'ultimo legame con la realtà si conquista, un metro alla volta, la rotta del ritorno superando le nuvole basse che avvolgono i risalti del Continental Divide, spartiacque di montagne brulle e lunari che separano il continente nordamericano dalla regione artica, riesco soltanto a chiedermi come possa quel precario assemblaggio di parti meccaniche superare la forza di gravità.
Lo rivedremo, se tutto andrà come previsto, tra sedici giorni alle coordinate che identificano una vecchia pista militare lungo la costa artica dell'Alaska. Tra noi e il ritorno, 400 miglia di territori sconosciuti e un fiume, unica, impetuosa e imprevedibile via d'uscita nel labirinto di cime e valli in questo angolo di pianeta lontano nel tempo e nello spazio dalla quotidianità.
Solo quando l'eco del motore svanisce nel nulla, concretizzo finalmente l'idea astratta della solitudine.
Il mondo degli uomini, delle arroganze e dell'apparenza si è fermato molto più a sud. Gli ultimi avamposti di civiltà sono a mille chilometri di distanza. Oltre le creste ostili del Brooks Range. Oltre le impercorribili trappole d'acqua e fango dell'infinito bacino dello Yukon, che disegna con i suoi ghirigori argentati sinuosi disegni nelle tundre desertiche del Grande Nord.
(2 agosto 2006 - in un punto imprecisato alle sorgenti del fiume Kongakut, Arctic Natioonal Wildlife Refuge, Alaska)

Arctic National Wildlife Refuge, wilderness sconosciuta
Esite un posto, in questo pianeta intasato dal caos di “persone-case-automezzi-inquinamento-stress” dove valli, fiumi e montagne non hanno ancora un nome? Dove esistono zone mai sfiorate dal passo di un essere umano? Dove lo spazio è dominio assoluto di orsi, rapaci e caribou? Dove l'estate è un'illusione che dura una manciata di giorni, e l'inverno è padrone assoluto del tempo? Dove possono ancora correre liberi i sogni di avventura che hanno spinto verso l'ignoto i grandi esploratori del passato? Esiste!

È l'estremo nord dell'Alaska, ultima zona selvaggia della Terra dove ancora esistono le leggendarie “macchie bianche” che sulle carte geografiche contraddistinguono aree in cui deve ancora svilupparsi la scoperta del territorio.

Questa immensa regione disabitata oggi è una zona protetta, voluta con grande determinazione dal presidente americano Jimmy Carter negli anni '70 del secolo scorso, ma corre l'enorme pericolo di essere violentata e distrutta dalle compagnie petrolifere che pretendono dal governo le concessioni per lo sfruttamento del sottosuolo, in particolare luogo la costa. A fronte di un quantitativo limitato di petrolio presente nell'area, l'avidità del potere economico è pronta a distruggere uno degli ultimi ecosistemi naturali del nostro pianeta, intatti da milioni di anni, che costituiscono uno dei luoghi più importanti della Terra per la riproduzione degli uccelli migratori, che nella breve estate artica giungono qui da tutti i continenti per nidificare.

Kongakut 2006
Montagne che emergono da foreste inesplorate, un fiume incassato tra canyons e ghiacciai: in un tratto molto limitato all'inizio del fiume si sono avventurate finora non più di un centinaio di persone per osservare le migrazioni degli alci caribou; il resto della zona è invece totalmente sconosciuto. Questo è l'ambiente del Kongakut, territorio dominato dai grandi animali selvaggi, luogo ideale per i giganteschi orsi grizzly, che presenti in tutta l'area, nella zona della foce contendono lo spazio agli orsi bianchi artici; lungo il fiume, tra boschi e praterie vivono lupi, centinaia di migliaia di caribou, buoi muschiati, e, nel mar glaciale, balene, foche, orche. Le zone costiere rappresentano il luogo di nascita per una miriade di uccelli.
Penetrare in questa zona desolata offre le stesse emozioni vissute dai grandi esploratori africani duecento anni fa, esaltate dall'idea di avventurarsi in aree sconosciute.

Ti interessa partecipare a una grande avventura nell'estremo nord dell'Alaska?
All'altro capo del telefono Pietro Simonetti, un gagliardo piemontese che vive da anni a Boulder, in Colorado. Appassionato di montagna e di territori selvaggi, salta da una parte all'altra del mondo a caccia di emozioni. Ci siamo conosciuti grazie alla rivista, perché in passato mi ha proposto alcuni reportages, e ci sentiamo spesso grazie alla tecnologia che, attraverso il monitor di un computer, illusoriamente annulla le distanze.
Esiste una sola risposta alla domanda di Pietro, e a fine luglio ci ritroviamo, insieme ad altri quattro compagni, in viaggio per i territori senza confini del Grande Nord.

Una terra vuota?
Alzando col braccio un grande foglio bianco, da qualche tempo il senatore dell'Alaska si esibisce, periodicamente, in un personale show davanti ai componenti del Congresso statunitense.
La difesa a oltranza dell'Arctic National Wildlife Refuge è una stupidaggine.
Il petrolio della costa est dell'Alaska è una risorsa di tutti, indispensabile per la crescita del mio stato, e non una riserva personale per un branco di ambientalisti radicali.
I territori a nord del Brooks Range sono vuoti, disabitati, inutili. Lontani.
Chiedo il consenso a iniziare le prospezioni nelle zone orientali del delta artico.

Nella realtà, l'immenso territorio sconosciuto e inesplorato che dal confine settentrionale col Canada arriva a ridosso della devastante Trans-Alaska Pipeline, responsabile della trasformazione di buona parte del settore occidentale di questa regione in un'immensa discarica industriale, non è proprio vuoto.

È vero che gli insediamenti umani sono a migliaia di chilometri di distanza.
Ma questa è una fortuna per i grandi branchi migratori di caribou, per gli ultimi musk-ox, i buoi muschiati residuo delle epoche glaciali preistoriche, per i lupi e le volpi artiche, per i giganteschi grizzlies, i black bear e gli orsi polari, e soprattutto per un'infinita varietà di uccelli che, da ogni terra del pianeta, vengono a nidificare in questi luoghi ostili alle bramosie di conquista degli umani.
Perché negli acquitrini della costa orientale alaskana affacciati sulle banchise polari, nella brevissima estate artica, si realizzano le condizioni ideali per l'eterno ciclo della riproduzione.

Però nel sottosuolo di questa zona costiera c'è anche qualche pozzanghera di oro nero, capace di scatenare, come ai primi del XX° secolo, una nuova Gold Rush, la corsa isterica e folle ad accaparrarsi la nuova ricchezza.
Le stime valutano la presenza di un quantitativo di sostanze bituminose pari a nove miliardi di barili, che equivalgono alla copertura per sei mesi del fabbisogno energetico degli Stati Uniti. Un'inezia, ma comunque un business enorme per le compagnie petrolifere. Le infrastrutture per l'estrazione - aeroporti, insediamenti e strutture industriali, migliaia di chilometri di strade e oleodotti - richiederebbero circa un decimo dei ricavi derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti.
Un affare d'oro, se ci si “dimentica” di calcolare i costi e le devastazioni ambientali, che peraltro non compaiono mai nei bilanci di questi re mida dell'epoca contemporanea.
Dopo l'estrazione, al posto degli acquitrini - oggi paradiso naturalistico per uccelli e animali - rimarrebbe un immenso e sterile cimitero di ferro, cemento, rifiuti chimici e industriali capaci di intossicare per sempre anche questi luoghi.
Finora le richieste dell'“illuminato” governatore alaskano sono state respinte dal Congresso statunitense per un pugno di voti. Ma fino a quando la coscienza di una parte dei politici americani saprà resistere alle lusinghe del “progresso”?

Arctic Village
Gli americani? Li ho conosciuti che avevo diciott'anni. Sono venuti con un grande elicottero. Eravamo quattro o cinque della mia età. Ci hanno arruolati e siamo finiti in Vietnam…
Albert è il decano di Arctic Village - Washraii K'oo “passaggio dei caribou” in lingua locale - un insediamento Gwich'in, popolazione nativa di questi luoghi selvaggi che appartiene alla grande “Atabaschan Nation” diffusa in tutto il Nordamerica.

Il mondo cambia, anche qui. I caribou non passano più di qui e cacciare è sempre più difficile. Catturiamo qualche alce, ma non è la stessa cosa. Non è tanto buona la carne di alce.
Mentre racconta, lo sguardo del vecchio pellerossa sembra correre lontano e rimbalza sugli specchi argentati che brillano tra le conifere tutt'intorno al villaggio.
Il grande disgelo del permafrost ogni anno allarga i fiumi, nuovi corsi d'acqua collegano tra loro i nostri laghi e anche i pesci se ne stanno andando.
A mille chilometri della civiltà, isolato oltre il Circolo Polare Artico in mezzo alle foreste, anche in questo minuscolo insediamento la “globalizzazione” riesce a portare gli effetti negativi della nostra corsa folle verso un futuro malato.
Il petrolio?
Arricchirà le grandi compagnie internazionali. A noi lascerà solo un territorio senza vita.
Se potessi chiedere un regalo agli spiriti del bosco, vorrei che i caribou tornassero sulle piste dove mio nonno e mio padre mi hanno insegnato a cacciare.

No. Non ci interessa il petrolio. Spero di morire prima di vedere una strada attraversare il mio villaggio. Voglio morire da uomo libero!

“O scendo, o torno indietro!”
Mi aveva urlato qualche ora fa Tom, superando il ringhio stridulo del motore. Da troppi minuti stavamo sorvolando, con isterici e improvvisi cambi di traiettoria che immaginavo simili a quelli di una farfalla impazzita, l'angusta conca tra le montagne che fa da culla alle sorgenti del Kongakut.
Dove c'è acqua, c'è sempre un pezzo di terra dove appoggiare questo tafano!
Aveva sentenziato poco prima, superando le cime tetre e nude del Brooks Range a tratti illuminate dal candore dei ghiacciai, ma questa sicurezza sembrava adesso sconfitta dallo scenario che scivolava poche decine di metri sotto le ruote goffe e tozze del piccolo aereo.

Tom è un bush-pilot, uno di quei pochi e leggendari pazzi volanti che hanno scelto di trasformare ogni volo in avventura. Quale posto migliore dell'estremo nord alaskano, lontano da ogni sicurezza e garanzia, per sfogare questo istinto malsano? Per un pugno di dollari questi aviatori dalle capacità tecniche pari almeno alla loro straordinaria follia sono, in teoria, capaci di depositare chiunque in qualsiasi luogo. In teoria.
Sotto di noi, intrappolata tra due versanti di montagne scoscese e repulsive, solo la scia limacciosa del fiume delimitata da una coperta compatta di arbusti.
“Tieniti!”
L'ordine, secco e incredibile, mi aveva sorpreso mentre inutilmente cercavo di trovare una giustificazione al mio essere lì.
Vado io per primo - avevo detto ai miei compagni - così filmo le sequenze degli atterraggi…
Irreale, dopo due ore di frastuono meccanico nell'angusta cabina dell'aereo, il silenzio improvviso del motore era coinciso con l'impressione di aver perso inesorabilmente il filo invisibile che ci sosteneva nel vuoto. Dopo una frazione di secondo durante la quale mi era parso fossimo immobili nell'aria, il velivolo era improvvisamente planato sulla vegetazione.
Attimi confusi.
Perdita della certezza del sopra e del sotto.
Poi, violento e fortissimo, l'urlo parossistico del motore aveva trasformato l'elica in un gigantesco tagliaerba.
Rami e foglie erano esplosi in ogni direzione, prima che il mondo ritornasse orizzontale e fermo.
Very Good! Niente sassi, niente buchi. Tutto ok!
Tom mi sorrideva con un'espressione ebete. Come un'eco inarrestabile, le vibrazioni del motore e i sussulti dell'atterraggio avevano continuato a rimbalzare a lungo dallo stomaco ai pensieri.
E se trovavamo un sasso, un buco?
Succede raramente!
Una sentenza che risolveva ogni dubbio sulla discutibile logica di questi piloti.

Scaricati velocemente me, Peter e i primi sacchi di attrezzatura, Tom era ripartito, e dopo i tre viaggi necessari per trasferire tutti i componenti e materiali della spedizione, l'opera di “giardinaggio aereo” aveva disegnato nell'umida boscaglia di arbusti sulla riva destra del Kongakut una striscia di qualche decina di metri.
Sufficiente a Tom per catalogare sul suo taccuino consunto di appunti improvvisati quelle coordinate come “landing ok”.
Se un giorno porterò qualcun altro in questa zona, so dove finire.”
Un attimo di meditazione perplessa aveva fatto da chiosa al pensiero conclusivo del nostro pilota, che equivaleva a un addio.
Ma chi potrebbe chiedermi di portarlo qui? Good Look!
Senza attendere risposte, la cuffia di pilotaggio che sparava Bob Dylan a tutto volume e il motore che ruggiva nello sforzo del decollo avevano interrotto definitivamente la comunicazione con quel gruppo di bizzarri, abbandonati nel nulla infinito della natura artica.

Infinito. Solitudine. Silenzio.
Concetti elementari. Assoluti. Come ogni scenario che mi circonda in queste terre lontane dalle dimensioni e dai profili che siamo abituati ad attribuire alla nostra realtà. Un ambiente selvaggio e grandioso, irraggiungibile dai pensieri.

4 agosto - Siamo sei microscopici animali che arrancano sui pendii di una qualsiasi montagna del Continental Divide. Attorno a noi solo cime senza nome. L'idea di essere i primi umani a calpestare quei luoghi sconosciuti è un'emozione troppo intensa. Che parole e concetti non sanno raccontare.
Nelle nostre fantasie nessuna pretesa di compiere grandi imprese. Qui non c'è nulla da “vincere”, da “conquistare”. Non ci sono “grandi montagne” per i campioni dell'alpinismo, solo infinite terre verticali che, come in un mare tempestoso, si addossano le une alle altre, separate da valli profonde. All'infinito. A sud le foreste e gli acquitrini che formano l'immenso e impenetrabile bacino dello Yukon. A nord, oltre le montagne e lontano centinaia di chilometri, l'universo di ghiacci del Mar Glaciale Artico.
Forse qualche antico cacciatore ha seguito in questi luoghi selvaggi le tracce del caribou, ma questo dubbio non riesce a disturbare la nostra emozione.

White Water
Sono le “acque bianche”, le correnti selvagge dei fiumi che precipitano nelle gole delle montagne, e la corsa trasforma in una schiuma nervosa e vorace. Dopo le escursioni su cime che non conoscevano i passi dell'uomo, sono il secondo obiettivo della spedizione. E anche l'unico modo per raggiungere, cavalcando la schiena liquida e nervosa del Kongakut, l'oceano artico.

10 agosto - Mentre Ryan, Peter ed io smontiamo il campo, Bonnie, Greg e Pietro controllano le canoe. Dopo i primi giorni di discesa relativamente facile, il fiume si è lasciato indietro le larghe anse del primo tratto, caratterizzato dalla presenza di ghiacciai che ancora lavorano i fianchi delle montagne, per infilarsi in una gola stretta tra pendii scoscesi che salgono inesorabili verso il cielo.
Come ogni giorno Bonnie, che in acqua è la più esperta del gruppo, ci ricordale procedure e le norme essenziali per la nostra sicurezza. A queste latitudini selvagge e lontane nessuno potrebbe venirci in aiuto, in caso di difficoltà, e dobbiamo avere tutti la massima concentrazione e attenzione per evitare guai. Un qualsiasi inconveniente, anche solo la rottura di un mezzo o la perdita di un carico, potrebbe mettere in grande difficoltà la spedizione. Peggio ancora, un incidente a qualcuno di noi potrebbe trasformarsi in una problema insuperabile. Possiamo contare solo sulle nostre forze e capacità, nell'infinito, magnifico e solitario palcoscenico dell' Arctic National Wildlife Refuge.

Inferno liquido
Aggrappati agli arbusti della riva, riusciamo a fermarci in una microscopica ansa relativamente tranquilla prima di un tratto orrido e repulsivo. Il fiume ci racconta con violenza la sua anima. Il ruggito dell'acqua è una minaccia sonora ancora peggiore dell'osservare la schiuma liquida, talmente compatta da sembrare panna, spalmarsi sulle rocce.
Bonnie e Ryan partono per primi.
Li osserviamo sparire nei vortici.
Solo a tratti, le teste emergono dal caos di spruzzi candidi. Poi nulla per minuti infiniti, fin quando sullo sfondo del canyon, prima che una curva a sinistra interrompa ogni contatto visivo, vediamo sollevarsi la pala gialla di una pagaia. Ce l'hanno fatta. È il segnale convenzionale che sono riusciti a trovare un punto relativamente calmo dove fermarsi.
Tocca a noi. Imploro Greg con lo sguardo. Sarei disposto a qualsiasi compromesso per evitare di buttarmi in quel massacro d'acqua. La razionalità che mi sussurra essere l'unica via d'uscita non può nulla contro l'istinto animale, che cerca di farmi uscire dalla canoa.
Forward!
In tre settimane di convivenza ho sentito poche altre parole uscire dalla bocca di Greg: “Back”, “Ok”, “Get Off”. Per il resto, gesti e silenzi hanno suggellato un simpatica e complice amicizia.

Sono davanti, devo solo pagaiare con tutte le mie forze infilandomi dritto dentro onde paurose, perché è di Greg, da dietro, la responsabilità di guidare quell'insignificante, effimero telo di plastica dentro il caos.
Negli occhi solo un opprimente orizzonte d'acqua imbestialita e l'impressione di essere sbattuti con perfidia in uno shaker dalla mano di un gigante. Nonostante la violenza della corrente, sembra che l'improbabile natante riesca a scivolare sulle creste. Poi una roccia assassina si anima davanti a noi.
Greg urla qualcosa, soffocato dal frastuono del fiume.

Affondo con furia scomposta la pagaia nella schiuma, e per un attimo sembra che la canoa galleggi nel vuoto. Abbiamo quasi superato l'ostacolo quando un risucchio d'acqua sbatte la coda dell'imbarcazione contro il masso. Perdendo la traiettoria verso valle, il nostro mezzo si trova improvvisamente perpendicolare alla corrente. Uno strattone violento precipita la punta della canoa in una sacca di acqua apparentemente immobile. So cosa dovrei fare. “Appoggiarmi” a monte con la pala della pagaia orizzontale rispetto alla superficie liquida, buttare il peso dall'altra parte e aiutare l'esile struttura di pvc a rimettere il muso verso la discesa. Ottima teoria. Basta una frazione di secondo. Ma i miei pensieri, pur sovraeccitati dal pericolo, sono comunque più lenti dell'onda di ritorno, che risalendo da valle per effetto del vuoto creato dalla grossa pietra mi travolge, affondandomi.
Il cielo scompare nella morsa gelata che mi azzanna la faccia.

La meccanicità della paura, imparata in mille avventure in montagna, mi permette di dimenticare qualsiasi emozione. Sensi e pensieri, ridotti all'essenzialità, sono focalizzati unicamente sull'analisi della situazione e sulle azioni da attivare per liberarmi da quella trappola liquida. Ho sopra di me duecento chili di imbarcazione e attrezzature, che potrebbero intrappolarmi schiacciandomi contro il fondo del fiume, se fosse troppo vicino, ma percepisco di essere in acqua profonda, e posso muovermi verso il basso. Inoltre le borse stagne, piene d'aria, mantengono il galleggiamento anche con la canoa rovesciata. A parte il gelo che mi morde il viso, mi scopro a stupirmi di non percepire in alcuna parte del corpo la sensazione repellente dell'acqua ghiacciata. Attento a non impigliarmi in qualcuno dei numerosi moschettoni e cordini che ho posizionato per tenere insieme i bagagli, scivolo fuori dal mio abitacolo e finalmente respiro.

Far galleggiare le gambe, allargare le braccia e farsi portare dalla corrente è l'unica regola essenziale dentro le rapide; scopro essere quasi divertente saltare tra i vortici da un'onda all'altra come in una giostra da lunapark. L'unica variazione di assetto che cerco è girarmi coi piedi a valle, per riuscire a vedere eventuali massi affioranti e cercare di evitarli.
E di nuovo mi stupisco nel non provare alcuna sensazione di freddo e bagnato. Le leggende delle acque artiche raccontano che si sopravvive solo pochi minuti prima di congelare. Allora perché, oggettivamente, sto quasi bene? Più tardi scoprirò che tutto il merito è della straordinaria tuta stagna che indosso, uno scafandro di Goretex progettato per spedizioni polari, capace di mantenere all'interno l'aria corporea e tenere fuori anche la più piccola goccia d'acqua.

Appollaiata su un masso della riva, Bonnie dal basso mi fa segno a gesti che poco oltre al punto dove si trova c'è un'ampia ansa, e la corrente è molto meno impetuosa. La supero toccandomi ripetutamente la testa, che nel gergo del fiume significa “tutto ok”, e comincio goffamente a nuotare. Poco dopo “attracca” anche Greg, tenendo stretta in mano la sagola della nostra canoa.
Poteva essere un grosso guaio. È solo un'emozione da ricordare. Pochi minuti ancora per masticare un pugno di frutta secca e una sorsata d'acqua, poi ci infiliamo di nuovo tutti dentro le rapide del Kongakut.

Natura viva
Fantastico osservare in televisione, comodamente seduti sul divano di casa, i documentari che raccontano la vita dei grandi protagonisti del regno animale.
Indescrivibile l'emozione nell'osservare un primo attore di quello stesso documentario muoversi, reale, e recitare la propria parte a poche decine di metri.

17 agosto - Ieri siamo finalmente usciti dal delta del Kongakut, e stiamo scivolando tra i blocchi di ghiaccio dell'Artico per raggiungere il punto dove Tom ha promesso che ci verrà a prelevare, domani. Tra noi e le grandi, impetuose onde oceaniche, una sottile striscia di sabbia. I depositi dei fiumi che scendono dal Brooks Range hanno formato una sorta di laguna aperta, placida e poco profonda, dove solo a tratti il mare irrompe miscelando l'acqua dolce dei ghiacciai alaskani col sale liquido del Polo Nord.

Nella linearità perfetta di questa barriera naturale una grande sagoma chiara è l'unico elemento anomalo. Soprattutto quando, intuendo la nostra presenza, si alza imponente sulle zampe posteriori sprigionando tutto il fascino e la potenza del predatore. Il muso affilato del grande orso bianco scandaglia l'aria lentamente, da destra a sinistra, come un radar. Rimango ipnotizzato dalla straordinaria forza di quell'immagine. Vista infinite volte nella virtualità del video. Ma oggi lo straordinario animale è lì, nella mia stessa realtà. Poche zampate nell'acqua bassa della laguna ci dividono. Estremamente pericoloso, ma ancora di più affascinante, lo spettacolo ci inchioda. Accendo la telecamera. Ryan estrae il fucile dalla custodia impermeabile. Alcuni giorni fa, nel cuore della notte, un grizzly ha visitato il nostro campo e l'esplosione di una pallottola in aria l'ha convinto lasciarci perdere. Ma lì davanti c'è un imponente maschio di orso bianco, uno degli animali più feroci, potenti e aggressivi del regno animale. Per di più, sta sbranando una foca appena catturata e potrebbe pensarci come antagonisti. Afferra nella grande bocca l'animale sbrindellato e sembra allontanarsi, caracollando nella caratteristica andatura barcollante e solo apparentemente lenta e goffa. Depositata la carcassa della foca a qualche metro di distanza, ritorna verso di noi, e senza bisogno di alcun accordo tutti capiamo che è il momento di darci sotto con le pagaie. Le canoe scivolano silenziose sull'acqua. Sulla sottile striscia di sabbia, con le sue ampie falcate l'orso ci accompagna minaccioso per oltre un chilometro. Lo ricorderò come un momento straordinario di questa straordinaria avventura.

Kaktovik, il paese più lontano dal mondo
Dalla pista d'erba affacciata sul mare, dove abbiamo condiviso l'ultima cena frugale di cereali liofilizzati con alcune volpi artiche e una famiglia di “cani della prateria”, simpatici e invadenti roditori simili a marmotte che detengono i diritti di proprietà di questi luoghi, l'aereo di Tom ci ha scaricato nel caos sconvolgente di Kaktovik, avamposto umano verso il Nulla.

Antico villaggio di pescatori Inupiat, appartenenti alla grande tribù delle popolazioni nordiche che hanno colonizzato, millenni fa, tutte le regioni più settentrionali dell'emisfero nord dalla Siberia all'Europa, fino alle coste del Nord America, è un insieme di baracche fatiscenti dimenticate su un isolotto perso nella solitudine del Mar Glaciale Artico.
Una sessantina prefabbricati di legno e plastica, sgangherati e decrepiti, che nella nostra realtà non useremmo neppure come garages, ospitano circa duecento abitanti, in attesa che accada qualcosa. Un'atmosfera di precarietà sottolineata da mobili sfasciati, mezzi meccanici in sfacelo che arrugginiscono sotto la pioggia, corna di caribou, pelli d'orso e di foca, giocattoli rotti.

Infinite storie ammassate, insieme a cumuli di sporcizia e cani luridi, davanti a porte sghimbesce. Il permafrost che si scioglie, facendo lentamente sprofondare ogni cosa, contorce il suolo e queste catapecchie, colorate a tratti di tinte vivaci per scacciare la paura nascosta della lunga notte artica. L'effetto visivo è di un paese improvvisato, dove tutto è in equilibrio instabile.
Eppure resistono, gli abitanti di Kaktovik. Grazie ai sussidi statali che garantiscono l'apatia e l'illusione che, un giorno, il petrolio porterà la ricchezza.

Aspettiamo un altro aereo. Rotta verso sud, verso la “civiltà”, che cresce lontana da queste terre di frontiera. Fairbanks, Anchorage, poi Seattle, Denver e finalmente un salto oltre l'oceano, Francoforte e alla fine le sagome familiari delle mie montagne. Negli occhi e nei pensieri, gli orizzonti infiniti di un mondo selvaggio che forse ha già cominciato a morire.

La potenza del sole per fotografare
Un mese in assoluta autosufficienza... eppure la mia Nikon D200 si è dimostrata una compagna perfetta in un'impresa così impegnativa, con l'unico accorgimento di proteggerla dalla pioggia e dalle rapide del Kongakut con le guaine impermeabili. Insostituibile anche il treppiede, usato spesso anche in modo improprio, ma con ottimi risultati, come “palo” per sostenere i teli antipioggia e per stendere ad asciugare ogni genere di attrezzatura.

Essenziali anche i pannelli solari; siamo stati per tre settimane lontani da qualsiasi fonte convenzionale di energia elettrica e ho utilizzato il mio sistema per fare a meno di qualsiasi presa di corrente per alimentare le batterie della fotocamera e l'hard disk per l'immagazzinaggio dei files.
Il mio pannello solare è un "cofanetto" grande quanto un libro e pesante meno di un chilo, che, una volta aperto, espone otto cellule solari capaci di erogare ben 960mAh, più che sufficienti per caricare le batterie al litio delle fotocamere Nikon. A patto però di colle

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