È una delle firme più prestigiose nel suo settore, avendo fotografato elementi architettonici praticamente ovunque nel mondo e pubblicato le sue immagini su riviste di architettura e design note a livello internazionale.
Saverio Lombardi Vallauri, fotografo professionista nato a Firenze ma attualmente di base a Milano, è docente dal 1991 presso lo Ied, l'Istituto Europeo di Design.
Vive la fotografia di architettura con una partecipazione interiore fuori dal comune, quindi come confronto continuo con se stesso e con le sue emozioni.
Nell'intervista che segue, descrive con estrema chiarezza e proprietà di linguaggio, il suo approccio alla disciplina, le basi della fotografia di architettura e le differenze esistenti tra questa e gli altri generi fotografici. Ama leggere, vedere film e, quando può, rilassarsi in spiagge poco affollate.
Cosa significa per te fare fotografia d'architettura?
Significa innanzitutto potermi confrontare con quello che mi è sempre piaciuto e che ho studiato. Significa inoltre interagire in profondità e stabilire una relazione intima con soggetti che per me sono un insieme di emozione e ragionamento. L'architettura è ordine e a me l'ordine comunica positività. La fotografia di architettura mi offre inoltre la possibilità di stare da solo, con le mie emozioni, davanti a qualcosa che mi corrisponde. Poi si potrebbe vedere il tutto da altri punti di vista e dire che la fotografia di architettura determina lo spazio in cui tutti viviamo, i luoghi in cui ciascuno di noi può costruire o meno delle relazioni...
Ci sono somiglianze tra la fotografia di architettura e quella di paesaggio?
Direi di no. Non si somigliano molto. Il singolo oggetto architettonico si presta più allo Still Life e non ha molto a che fare con il paesaggio. Semmai delle somiglianze esistono tra paesaggio urbano e paesaggio non urbano. E per entrambi occorre una buona capacità di lettura e interpretazione per realizzare belle fotografie. Personalmente, fotografo il paesaggio solo quando sono in vacanza ma gli scatti che ottengo li tengo per me, non considerandoli parte del mio lavoro.
Si può fare fotografia di architettura con una buona macchina compatta? Quanto conta l'attrezzatura?
Assolutamente sì. Ed io lo faccio con diverse compatte, tra cui una Nikon COOLPIX P7700 di cui apprezzo molto il monitor ad angolazione variabile. Tenendo la macchina "a pozzetto", cioè poggiandola sulla pancia, posso scattare con tempi un po' più lunghi senza usare il cavalletto.
Per lo stesso motivo, cioè per i vantaggi che il monitor orientabile offre, ho acquistato un po' di tempo fa la reflex Nikon D5100 con la quale ho fotografato una passata edizione del Salone del Mobile di Milano.
Le compatte sono molto utili quando si ha fretta o ci si vuole muovere leggeri.
Se conta l'attrezzatura? Sicuramente. Senza grandangolo, per esempio, si può fare ben poco. Ma se non si ha idea di ciò che si ha davanti, non c'è attrezzatura che tenga.
È vero che la fotografia d'architettura è una delle più ragionate potendo contare su lunghi tempi di preparazione?
Sì, è assolutamente vero. Il fotografo di architettura ha bisogno di tempo per leggere l'edificio e di altro per raccontarlo. Ciò rende questa disciplina una fotografia "lunga", piuttosto lenta. Ti dirò di più: poco tempo fa il lavoro di lettura era particolarmente laborioso, richiedendo sopralluoghi dai quali si derivavano informazioni sull'orientamento geografico dell'edificio da fotografare, sulla disposizione delle ombre e via dicendo. Oggi è un po' più facile, essenzialmente per due motivi. Punto uno: esiste Google Earth dal quale si ricavano quasi tutte le informazioni che un tempo dipendevano dal sopralluogo. Punto due: la gamma dinamica delle attuali reflex Nikon è talmente ampia da consentire un buon livello di dettaglio sia nelle ombre sia nelle alte luci. Ciò consente di fotografare anche quando la luminosità dell'ambiente non è perfetta.
In condizioni particolarmente difficili, è possibile inoltre eseguire più scatti in bracketing quindi sovrapporli per produrre immagini HDR (ad alta gamma dinamica, ndr). Ciò che ancora richiede tempo e studio e che prescinde dagli strumenti messi a disposizione dalle tecnologia, è la scelta dei punti di vista e dell'ampiezza delle inquadrature.
Come si rimedia alle distorsioni periferiche, inevitabili quando si fotografa con il grandangolo? È a tal proposito indispensabile la correzione software in post-produzione?
Vorrei approfondire un attimo la questione e fare una precisazione. Nel fotografare l'architettura, possono prodursi due tipi di deformazione della realtà: quella legata ai grandangoli e che interessa in modo più accentuato le porzioni periferiche del soggetto, e quella dovuta alla prospettiva, che si ha quando il piano dell'edificio da fotografare e il piano del sensore della macchina non sono perfettamente paralleli. Se, per esempio, nell'inquadrare un edificio, punto l'obiettivo leggermente verso l'alto, si genera un punto di fuga a sui tendono le linee cadenti, ossia quelle linee che all'occhio umano, al contrario, appaiono perfettamente verticali e parallele. Esistono, per quanto riguarda gli effetti introdotti dalla prospettiva, due differenti scuole di pensiero: la prima accetta che le linee cadenti tendano verso un punto di fuga posizionato generalmente in alto, la seconda invece vuole che la rappresentazione fotografica sia fedele alla realtà. Quale seguire fra la prima e la seconda? Non c'è una regola. Spesso ci si attiene alla richiesta del cliente. Tornando alla domanda, rispondo che per correggere gli effetti del grandangolo, e anche della prospettiva, si ricorre a diversi software, ottenendo anche ottimi risultati.
Cosa stai fotografando per l'Expo di Milano?
Mi sto occupando di alcuni padiglioni e in particolare del padiglione degli Stati Uniti. Di recente è stata infatti pubblicata un'intervista su Domus Web a James Biber, famoso progettista americano che ne ha disegnato la struttura, arricchita dalle mie fotografie. Sto inoltre fotografando il padiglione del Vietnam, una serie di cose per il padiglione della Federazione Russa e per alcune aziende che partecipano all'evento dal lato dell'edilizia.
La presenza umana in un contesto architettonico secondo te arricchisce o disturba l'esposizione?
Dunque, a me piace occuparmi di fotografia di architettura e se posso rinuncio volentieri alla presenza umana.
Le persone sono variabili non controllabili, non sempre sono belle, talvolta mettono il dito nel naso, chiudono gli occhi quando meno te l'aspetti e fanno le facce strane, legano le giacche intorno a grandi pance, indossano felpe con molte scritte. In un certo senso "sporcano" la composizione. Se però sono impegnato nella rappresentazione di uno spazio urbano, dove le persone sono il motivo per cui lo stesso esiste, la presenza dell'elemento antropico è d'obbligo.
Vedi, uno dei motivi per cui ho scelto di fare il fotografo di architettura, sta proprio nella possibilità che questa ti offre di non interagire necessariamente con gli esseri umani. Non amo stare con chiunque. Fotograficamente parlando, ho rapporti con le persone solo durante il Salone del Mobile di Milano, il cui lavoro dura circa tre settimane, considerando il prima e il dopo. Al di fuori di questo contesto, agisco prevalentemente da solo.
Con quale corpo macchina stai lavorando e con quali ottiche?
Con la Nikon D800. E ricordo che ai tempi in cui l'ho acquistata, ero indeciso fra la D800 e la Nikon D800E sprovvista di filtro passa-basso. Ero in partenza per una destinazione di lavoro alla quale avrei dovuto dedicare moltissimo tempo e avevo urgenza di scegliere. Ho optato per una soluzione più classica non avendo modo di sperimentare gli effetti dell'assenza del filtro, con la dovuta calma. Di recente è uscita la Nikon D810, una macchina molto interessante. Credo che la acquisterò non appena si presenterà l'occasione di sostituire la mia attuale D800, macchina della quale sono ampiamente soddisfatto: i Raw sono molto belli e la gamma dinamica abbondante.
Quanto alle ottiche, possiedo l'AF-S Nikkor 17-35mm f/2.8D IF-ED, l'AF-S Nikkor 24-120mm f/4G ED VR, un 80-200mm e un 35-70mm che arrivano dal corredo pellicola. Ho poi il PC-E Nikkor 24mm f/3.5D ED e il PC-E Micro Nikkor 45mm f/2.8D ED entrambi decentrabili. Il 24mm è quello che uso di più. Non ti nascondo che attendo con ansia il giorno in cui sarà possibile acquistare il primo obiettivo zoom decentrabile.
Da quanto tempo sei nikonista? Hai mai pensato di cambiare?
Sono nikonista dal 1981. Quando avevo 17 anni, mi fu regalata una Nikkormat e un obiettivo da 50mm. In quel momento è nato tutto. Premesso che nella mia carriera ho scattato ricorrendo anche a formati differenti da quelli che offriva e offre Nikon, come il banco ottico, nel 2007, lo ammetto, ho pensato di cambiare, per l'impossibilità di abbinare i miei grandangoli alle reflex Nikon in formato DX. La tentazione è durata fino a quando sono state presentate le reflex in formato FX, cioè Full Frame, come la D3 e la D700. Dopo, ho deciso di rimanere fedele a Nikon e oggi utilizzo, come appena detto, una D800 di cui apprezzo il sensore CMOS da 36,6 megapixel: nella fotografia di architettura avere tanti pixel a disposizione è di aiuto.
Qual è il genere fotografico più distante, in termini di metodo e filosofia, dalla fotografia di architettura?
La fotografia di moda, genere fotografico distante dal mio modo di essere poiché non tiene conto dello spazio intorno. Anzi, spesso ne fa a meno. È una fotografia che si fa in gruppi numerosi, su set quasi sempre affollati. La fotografia di architettura, al contrario, è un ragionamento autoreferenziale e un po' misantropico. La fotografia di architettura la fai da te e quasi mai hai bisogno di altri. Anzi, da questi altri e dai loro pensieri, hai solo bisogno di non essere distratto. Quando si fa fotografia di architettura, è meglio essere soli e concentrarsi esclusivamente sul soggetto. L'architettura è quindi un rapporto strettissimo tra il fotografo e un soggetto non umano. E forse amo questo genere di fotografia anche per questo. Nella fotografia di moda, le decisioni sono condivise con il cliente e con l'agenzia di comunicazione. Tutto questo lo avverto molto distante dal mio modo di essere e di lavorare.