Le basi rinascimentali della rappresentazione dell'architettura
Vista dalla finestra a Le Gras, la più antica delle foto
sopravvissute di Nicéphore Niépce (1826) |
Era l’estate del 1826 quando Joseph-Nicéphore Niépce dopo lunghi anni di esperimenti, ottiene la prima immagine stabile per effetto della luce su un materiale sensibile ad essa: la veduta goduta dalla finestra del suo studio a Gras, a pochi chilometri da Parigi. L’immagine sulla lastra di peltro di 16 x 20 cm spalmata con bitume di Giudea, materiale in un certo grado fotosensibile, fu ottenuta con un’esposizione di un’intera giornata; tempo che permise alla luce di produrre il suo effetto: quello di indurire e sbiadire il bitume determinando il chiaroscuro del soggetto sul supporto di peltro, messo poi a nudo con olio di lavanda e petrolio, che ebbero il compito di asportare le parti non colpite dalla luce.
Era nata la foto-grafia (che Niépce chiamò Eliografia), la scrittura con la luce, tecnica, ben presto perfezionata e destinata a sconvolgere non solo il modo di fare rappresentazione, ma il mondo tutto della comunicazione.
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Il lungo tempo di posa necessario, fece puntare la rudimentale attrezzatura verso un soggetto molto paziente quale solo un’architettura poteva essere, facendo coincidere la nascita della fotografia con la nascita della fotografia d’architettura. In realtà, il risultato appena descritto, ottenuto come già detto nel 1826, è frutto di un processo che ha avuto avvio moltissimi anni prima.
La rappresentazione bidimensionale della realtà, che è tridimensionale, è una delle questioni più approfondite sia nella storia dell’arte, sia nella storia della scienza. Già nelle civiltà pre-elleniche furono ideati procedimenti elementari per la rappresentazione del reale. Euclide, uno dei grandi legislatori della geometria greca, scrisse un trattato che si è rivelato fondamentale per la storia della prospettiva: Ottica.
Grazie a questa opera, gli sforzi per ottenere una rappresentazione verosimile della realtà imboccarono la strada dello studio matematico. Successivamente, furono gli scritti di Vitruvio, architetto e ingegnere militare dell’età augustea, che portarono un rilevante contributo della civiltà romana alla storia della prospettiva. Vitruvio definisce “scenographia” la rappresentazione prospettica di un oggetto reale, costituita dallo schizzo della facciata dei lati per linee convergenti al centro.
Nel Medioevo, dal punto di vista artistico, spesso, i criteri della rappresentazione erano collegati all’importanza dei soggetti ritratti (analogamente a quanto si nota, ad esempio, per l’arte egiziana): infatti, il personaggio più importante di un quadro veniva spesso rappresentato con le maggiori dimensioni, indipendentemente da qualsiasi visione prospettica. Nonostante ciò, accorgimenti pratici per la resa pittorica della tridimensionalità possono già essere evidenziati nelle opere di molti artisti del tardo Medioevo, secondo quella che è stata definita “perspectiva communis”, cioè l’elaborazione intuitiva della terza dimensione. È nel Rinascimento che avviene la svolta che portò artisti e matematici ad elaborare regole precise per la rappresentazione del reale, superando l’empirismo.
Questo passaggio dalla “perspectiva communis” medievale alla “perspectiva artificialis” (seguendo la distinzione di Leon Battista Alberti) viene fatta risalire all’inizio del XV secolo, con gli studi di Filippo Brunelleschi (1377-1446).
Da questo momento in poi furono messe appunto delle strumentazioni, macchine per disegnare, chiamate anche camere obscure, che attraverso un sistema di proiezione, servivano ai pittori per realizzare delle “copie fedeli” della realtà, secondo le leggi della prospettiva.
Tutto ciò, insieme all’osservazione che alcune sostanze subissero delle alterazioni se colpite dalla luce, e quindi fossero “fotosensibili”, portò al desiderio di rendere stabile, su un supporto, le immagini che si proiettavano nelle strumentazioni di cui sopra. Si arrivò, come detto in apertura, al primo risultato di Niépce del 1826, a cui seguirono altri più o meno contemporanei, tra questi bisogna ricordare quelli raggiunti da Daguerre.
La questione delle “linee cadenti”
Nella rappresentazione dell’architettura, proprio per quanto codificato nel Rinascimento con le leggi che regolano la prospettiva, è inevitabile considerare ottimale, la posizione di naturale parallelismo delle linee verticali. In questo modo si fa si che, un manufatto architettonico conservi la sua forma prismatica e non appaia come un tronco di piramide che, inoltre, potrebbe essere modificabile a seconda della diversa convergenza. Il nostro occhio corregge le cosiddette “linee cadenti” (la convergenza verso il centro delle linee verticali) con un processo fisico-psicologico, anche se alziamo lo sguardo. Nelle riprese di architettura, infatti, un corpo macchina non “in bolla”, cioè con il piano pellicola/sensore non parallelo al piano dell’edificio e quindi rivolto verso l’alto, genera tale problema. Nella fotografia di architettura la questione delle linee cadenti sembra essere un tabù, sia per motivi psico-fisiologici legati al nostro sguardo, sia per la tradizione iconografica che pretende sempre il rispetto del parallelismo delle linee verticali.
Nella storia della fotografia, l’architettura è stato un soggetto costante:
Henri Cartier Bresson, Atene 1953 |
John Ruskin prima metà dell’800 |
László Moholy-Nagy - Bauhaus Balconies, 1928 |
Sembra essere stato Leopoldo Alinari a mettere appunto la prima strumentazione decentrabile della storia nel 1854 a Firenze.
Gli Alinari, che avevano già iniziato da qualche anno numerose campagne fotografiche di catalogazione dei beni architettonici nelle principali città, avevano ormai uno stile consolidato:
Quest’ultima caratteristica, la ripresa da un punto più alto rispetto alla quota “zero”, consentiva spesso di riuscire a mantenere la macchina “in bolla” ed inquadrare tutto l’edificio. Nella produzione degli Alinari si incontrano sovente riprese che, pur di non inclinare verso l’alto la fotocamera, “sacrificano” un pezzo di architettura, che, per validi motivi, può non essere considerato errore.
Fu il campanile di Giotto a Firenze, a rappresentare però una sfida tecnica per la sua notevole altezza, fino a quando come già detto, uno dei tre fratelli, Leopoldo, costruì nel 1854 un obiettivo che, essendo mobile, permetteva anche di riprendere questo tipo di architetture secondo i canoni classici della rappresentazione prospettica.
Tecnicamente i decentramenti sono quei movimenti dell’ottica o del piano sensore (se parliamo di digitale) che, perpendicolari all’asse ottico, non modificano il parallelismo tra i piani nodali dell’obiettivo ed il piano del sensore.
I movimenti verso l’alto e verso il basso si chiamano decentramenti verticali, quelli verso destra o verso sinistra si chiamano orizzontali.
La Nikon introdusse nella prima metà degli anni ‘60, e tenuti in catalogo fino a qualche anno fa, due obiettivi PC (prospectiv control) che hanno fatto storia anche perché usati da fotografi che hanno fatto la storia della fotografia: il 28mm f 3.5 PC ed il 35mm f 3.5 PC con 11 mm di decentramento in tutte le direzioni. Il 35mm fu il primo obiettivo decentrabile per il formato 24x36.
Mi piace ricordare almeno due dei casi certi di utilizzo di tali obiettivi da parte di grandi fotografi: Paolo Monti e Gabriele Basilico.
Paolo Monti Bologna 1969
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Gabriele Basilico Milano 1978
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Paolo Monti nell’estate del 1969 deve fotografare il Centro storico di Bologna in pochi giorni, periodo per il quale tutta l’area viene chiusa al traffico veicolare, le splendide fotografie delle architetture bolognesi, strade e portici, sono il risultato di un attrezzatura comoda e versatile, ma specifica come appunto una reflex Nikon con obiettivo decentrabile.
Nel 1978 Gabriele Basilico, posa il suo sguardo sul quartiere Vigentino, area industriale di Milano. Verrà realizzata una mostra ed un libro, “Ritratti di fabbriche” in cui Basilico “mette in luce” le facciate di quelle cha da lì a poco, sarebbero diventate archeologie industriali. Usa una Nikon F2 con Nikon 28 mm PC.
Essendo presente nel mio parco obiettivi, il 28mm PC, non ho resistito a provarlo sulla Nikon D800. Nonostante “l’età”, i risultati sono all’altezza delle aspettative per un’ottica Nikon.
Nikon D800 + 28mm f/3.5 PC NIKKOR – con decentramento 11mm. |
Anche se, però non può competere in termini di nitidezza con il PC-E NIKKOR 24mm f/3.5D ED di cui parleremo tra poco.