La sintesi del racconto di un ex ispettore della Scientifica fa da sfondo a questo insolito ma originale Nikon Life. Rosario Pappalardo, per quasi trent'anni impegnato come video-foto-segnalatore per il Gabinetto Regionale di Catania, ha fotografato i fatti più tristi della cronaca italiana degli ultimi decenni, sempre e solo con macchine fotografiche Nikon.
CSI – Scena del crimine o Crime Scene Investigation se si preferisce tradurre correttamente l'acronimo, serie televisiva americana di grande successo, in onda dal 2000 con circa trecento episodi all'attivo. Storie sempre diverse, crimini di ogni genere, poliziotti e investigatori alle prese con i casi più difficili: cadaveri, tracce, indizi e luoghi da fotografare.
Gli agenti di Polizia Scientifica di Las Vegas operano sul set con macchine fotografiche Nikon, spesso accessoriate con il kit R1 composto da due unità flash Nikon SB-R200 pilotate in modalità CLS (Creative Lighting System) e progettato specificamente per la macro-fotografia.
Immagini e storie che destano curiosità, si ammantano di mistero ed esercitano grande fascino sugli appassionati di fotografia. Ma quanto la realtà è distante, se lo è, dalla finzione? Quanto le metodiche descritte in stile americano si avvicinano a quelle reali, messe in pratica anche dalla Polizia Scientifica italiana?
Per ottenere risposte a queste domande e soddisfare le curiosità di quanti sul forum Nital hanno affrontato negli ultimi anni il tema, abbiamo contattato e intervistato un ex ispettore superiore della Polizia Scientifica che per quasi trent'anni ha lavorato, reflex Nikon alla mano, presso il Gabinetto Regionale di Catania, l'ex poliziotto Rosario Pappalardo.
Impegnato come video-foto-segnalatore dal 1984 al 2011, ha eseguito rilievi fotografici di ogni tipo, sopralluoghi di ordine pubblico, esaltazione di impronte digitali e contribuito a risolvere i casi più disparati, dalle rapine agli omicidi, dai suicidi alle note stragi di stampo mafioso balzate alle cronache nazionali soprattutto negli anni Novanta. In più ha utilizzato le macchine Nikon in affiancamento ai medici legali, durante le autopsie, e nella realizzazione di moltissime foto segnaletiche.
Buongiorno sig. Pappalardo, mi dice che ruolo ha avuto nella Scientifica in tutti questi anni di servizio?
Buongiorno a lei e grazie per avermi coinvolto in questa interessante iniziativa. Dunque, ho concluso la mia carriera come ispettore superiore, mentre, per quanto riguarda il ruolo, ho quasi sempre lavorato come cine-foto-segnalatore, ossia come poliziotto addetto a fotografare sul luogo del crimine.
Quindi la macchina fotografica la seguiva ovunque?
Assolutamente. La Nikon era il mio strumento di lavoro più importante. Anche se i modelli negli anni cambiavano, non ho mai affrontato una sola giornata senza macchina fotografica al seguito. Può quindi immaginare quanto fosse importante disporre di una fotocamera robusta e affidabile, che funzionasse sempre, in altri termini indistruttibile.
Solitamente, quando si parla di Polizia Scientifica, tornano alla mente le immagini viste nella più famosa fiction televisiva sul tema, CSI – Scena dal crimine. Quanto c'è di vero in quelle scene?
Devo dire moltissimo. Quello che si vede in TV, per esempio in CSI, è esattamente ciò che la Scientifica fa nel suo lavoro quotidiano. La differenza sta nei tempi: nella fiction, per esigenze di realizzazione, si svolge tutto più velocemente. Nei sopralluoghi reali della Scientifica si procede invece con la dovuta calma. È pur vero, tuttavia, che le tecnologie attuali hanno velocizzato parecchio le procedure.
Quanto sono importanti le fotografie nel risolvere un caso?
Il ruolo che la fotografia assume nel risolvere i casi è cruciale. Direi che senza immagini si potrebbe fare ben poco. Mi riferisco sia alle indagini che hanno inizio immediatamente dopo che un fatto di cronaca criminoso è accaduto, sia a quelle che possono riprendersi a distanza di molti anni. La macchina fotografica ferma il tempo e congela la scena del crimine, consentendo anche dopo venti, trent'anni, di riaprire un caso, affrontarlo se necessario in modo diverso o rivisitarlo nelle sue più sottili sfumature. È per questo che il luogo del delitto viene isolato e salvaguardato da ogni contaminazione prima che la Scientifica intervenga per fotografare.
Facciamo un passo indietro, ai tempi della fotografia a pellicola. Succedeva che qualche immagine al momento dello sviluppo risultasse inutilizzabile?
È accaduto qualche volta. E quando accadeva, era un bel guaio. Può facilmente intuire, in piena era digitale, quanto difficile fosse fotografare un po' di anni fa, in piena notte e in aperta campagna, quindi in totale assenza di luce. Capitava spesso che cadaveri fossero rinvenuti proprio in quelle condizioni, di luce quasi assente, e che l'operatore aveva a disposizione soltanto il flash e qualche faretto aggiuntivo, senza però avere la possibilità di rivedere gli scatti sul momento e quindi di fotografare una seconda volta se necessario. Prima dell'avvento del digitale, lo scatto era solo uno degli step che ti conduceva all'immagine: personalmente sviluppavo in camera oscura, nei laboratori della Polizia Scientifica, e poi stampavo. Procedevo infine con la selezione delle fotografie che venivano quindi archiviate nei vari fascicoli. Con le Nikon digitali di oggi, con i sensori in grado di “vedere” anche nel buio, il compito del video-foto-segnalatore è sicuramente agevolato.
Si agiva in concomitanza con altri organismi investigativi della Polizia di Stato?
Sì, d'accordo con la Squadra Mobile, con la Criminalpol, con la Dia, la Direzione Investigativa Animafia. E si lavorava sempre, di giorno, di notte, di certo non si facevano gli orari d'ufficio. La Scientifica lavorava e lavora “h24”.
Una volta arrivati sul luogo, si doveva procedere in fretta?
No, non c'è mai stata fretta quando si fotografava sul luogo del crimine. Il poliziotto della Scientifica aveva e ha a disposizione il tempo necessario per fare il suo dovere nel migliore dei modi e, se serviva, tornare sul posto e fotografa ancora.
Il Gabinetto Regionale di Catania ha sempre usato macchine Nikon? E perché?
Nei primi anni di attività, ho utilizzato macchine fotografiche di marca Leica a ottica fissa. Quando però si è compresa l'utilità di poter cambiare le ottiche in funzione del soggetto e del risultato desiderato, la scelta è ricaduta su Nikon e da allora nessuno ha più pensato di cambiare. Di certo furono considerati altri brand, ma il rapporto qualità/prezzo che caratterizzava e caratterizza Nikon ha fatto da ago della bilancia. Scelta che poi si è rivelata giusta, soprattutto quando dagli obiettivi a focale fissa – utilizzavo in quegli anni il 28mm, il 50mm e il mezzo tele – c'è stato il passaggio ai primi zoom grandangolari come il 18-105mm. Un passo in avanti che facilitò enormemente il nostro lavoro perché un obiettivo simile permetteva di spaziare dal grandangolo al medio-tele in pochi attimi.
Con quali tempi e con quali pellicole fotografava?
1/60 di secondo come tempo di posa ed F/8 come apertura, talvolta F/11. Evitare il rischio di mosso era una priorità assoluta. Per quanto riguardava le pellicole, usavamo le Ilford 120 ASA, 400 oppure 800 ASA. Queste ultime quando c'era poca luce. Se ci penso, il digitale ha risolto un sacco di problemi.
La Scientifica prevede l'uso delle fotografie anche in situazioni diverse dai sopralluoghi?
Sì, ho spesso fotografato durante le autopsie. Con le fotografie era così possibile documentare in modo visivo le conclusioni a cui giungeva il medico legale.
Mi racconta di un episodio in cui è stato chiamato a fotografare e che le è rimasto particolarmente impresso?
La strage di Firenze del 1993, di stampo mafioso, in Via dei Gergofili. Quella mi è rimasta particolarmente impressa nella memoria. Vede, in quasi trent'anni di lavoro ne ho viste veramente tante, ma l'idea che un'intera famiglia fosse stata sterminata da un'esplosione, e che fossero rimasti coinvolti due bambini, di cui uno, la piccola Caterina, di appena 50 giorni, era veramente toccante. E perse la vita anche un giovane studente per il quale, ricordo, si rese molto difficile il riconoscimento. Fu dura da sopportare.
Come si fa a mantenere la freddezza? In quanto tempo “ci si abitua”?
Non c'è tanta scelta, si deve mantenere la calma e fotografare con concentrazione. È la consapevolezza che senza le tue fotografie difficilmente si farà giustizia, a darti la forza per andare aventi. Naturalmente, va detto, non è un lavoro per tutti né c'è un tempo standard dopo il quale ci si abitua.
Ci sono state situazioni in cui è stato particolarmente difficile fotografare?
Sì, anche se distinguerei le difficoltà dovute all'emotività da quelle meramente pratiche che il più delle volte, come già accennato prima, erano dovute alla scarsità di luce. Per quanto ci si fa l'abitudine e si accetta di assistere a scene molto forti, per onorare il lavoro, restano situazioni dure da digerire. Ricordo di un omicidio che vide vittima un ragazzo sparato alle spalle, da distanza ravvicinata, con una lupara. Lascio a lei immaginare cosa si presentò ai nostri una volta raggiunto il posto. In quella occasione ci furono quindi difficoltà emotive ma anche pratiche.
Ricordo inoltre del ritrovamento, a distanza di giorni dal compimento del delitto, di due cadaveri nascosti nel cofano posteriore di un'automobile. Erano in avanzato stato di decomposizione. Non fu facile avvicinarsi con la Nikon, inquadrare come meglio si poteva, mettere a fuoco e scattare le fotografie necessarie: l'aria era irrespirabile.
Altrettanto toccante è stata la strage di Pizzolungo, nel trapanese, del 2 aprile del 1985, messa in atto dalla mafia per uccidere il giudice Carlo Palermo. Il caso volle che a rimanere uccisi furono, per errore, una donna e i suoi due gemellini. Tutti fatti molto tristi da ricordare.
I giudici Falcone e Borsellino: due nomi scolpiti nella memoria di ogni italiano per i tristissimi fatti di cronaca che li hanno visti protagonisti. Cosa mi dice al riguardo?
Personalmente ho fotografato solo la strage di Via d'Amelio in cui persero la vita, il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Ricordo uno scenario apocalittico, ancora più impressionate, se possibile, di quello che offrì la strage di Capaci dove morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta.
Ricordo inoltre di aver fotografato a Palermo, in via D'Amelio, ma di aver sviluppato e stampato a Catania dove i laboratori fotografici della Scientifica erano attrezzati per lo sviluppo a colori. Quella strage avvenne in città, in pieno centro abitato. Si esagerò, si esagerò per davvero.
Una macchina Nikon analogica che l'è rimasta nel cuore e l'ultima digitale che ha utilizzato in carriera...
La Nikon F3, reflex con messa a fuoco manuale straordinariamente robusta. Potevi lavorare in tutta tranquillità senza andare troppo per il sottile. Per quanto riguarda le digitali, l'ultima che ho usato è stata la Nikon D5000. E poi... trent'anni di Nikon sul lavoro ti fanno diventare nikonista anche nella vita privata: possiedo tuttora due reflex analogiche Nikon, una Nikon FM2 e una Nikon F90, e una digitale, la Nikon D5100.
L'importanza della macro-fotografia?
Le ottiche micro-Nikkor hanno rappresentato un notevole supporto nella fase investigativa per immagini perché permettevano di fotografare i bossoli o altri particolari direttamente sul posto, quindi senza rimuoverli per portarli in laboratorio. Ho usato molto l'AI-S micro-Nikkor 55mm F/2.8, soprattutto nei primi anni Novanta e dopo, con grande soddisfazione lo zoom AF 28-85mm F/3.5-4.5 con funzione macro.
Il fatto più strano che le è capitato?
Con questa risposta rendiamo la conversazione un po' più leggera. La cosa più strana che mi è capitata? Ricordo che il questore di Catania mi chiese di fotografare l'Etna per la Festa della Polizia. Era un soggetto decisamente insolito per me (sorride, ndg).