Una settimana in Kosovo con i militari italiani della Kfor.
Trenta immagini per raccontare un Paese sospeso tra conflitti etnici, povertà e il sogno di entrare in Europa.
Ringraziamenti: capitano Gianluca Greco, caporal maggiore scelto Edoardo Guarnaccia
“La pupilla del mio occhio in Te si annida. Onorami di entrare, questa è la Tua casa”. È la frase con cui il poeta persiano Hafiz fissò nel 1357 la bellezza della chiesa Ortodossa di Prizren. Bellezza simile a quella del monastero di Dečani, da tempo protetto dalla Nato. I militari lo difendono dall'odio etnico che continua a serpeggiare in questo piccolo Stato incastrato nel cuore dei Balcani.
È il Kosovo, ex provincia autonoma della Jugoslavia, devastato dalla repressione di Milošević che negli Anni 80, morto Tito, cercò di soffocare con le armi il sogno indipendentista dei "koa", i kosovari albanesi.
Fu un bagno di sangue con migliaia di morti e quasi un milione di profughi. Nel 1999 le bombe Nato e la diplomazia Onu costrinsero il despota a ritirarsi. All'ondata della pulizia etnica di Belgrado seguì quella degli albanesi che distrussero decine di monasteri, villaggi, uccisero e costrinsero alla fuga i serbi. Nel 2008 il Paese ha dichiarato l'indipendenza ma al confine la Serbia continua a respingere le macchine targate Kosovo.
© Roberto Travan/La Stampa
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Grazie alla comunità internazionale sono stati fatti importanti passi in avanti ma la diffidenza fra le due popolazioni non è cessata: i serbi vivono ritirati nelle loro enclave, i "koa" sventolano bandiere albanesi, gli uomini della Kfor - la coalizione militare guidata dal generale di divisione Salvatore Farina - vigilano con discrezione. Nel frattempo l'Europa ha avviato un massiccio piano di aiuti per risollevare il Paese stremato da tensioni, disoccupazione, arretratezza. Perché il Kosovo è terribilmente povero (un euro l'ora la paga di un operaio) e, chiuse le fabbriche dell'era comunista, continua a sopravvivere con le rimesse degli emigrati.
È soprattutto una nazione stretta nella morsa della corruzione e delle mafie che trafficano armi, droga, prostituzione, organi umani.
Sulla bandiera kosovara sei stelle bianche rappresentano le etnie del Paese. "Manca la più importante, quella della Nato" sostiene Momcilo Savic, serbo di Belo Polje. Che non ha dubbi: "Quando la Kfor se ne andrà scapperemo in Serbia". Non brilla certamente la stella dei rom, quella che continua a pagare il prezzo più alto: l'odio di serbi e albanesi.
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